MUSICA




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Pino Daniele mise i jeans a Napoli - di Marinella Venegoni

Succede così, che soltanto quando muori d’un botto la gente si sveglia e si ricorda di quanto sei stato grande, delle canzoni tue che ha cantato e canterà. In questo pessimo inizio di 2015 ci tocca piangere, dopo Lucio Dalla, un altro artista centrale nella musica d’autore italiana, che se n’è andato in un amen ma che di morire non ne voleva proprio sapere, tanto che stava correndo dal suo cardiologo ma non è arrivato in tempo. Con il cuore ballerino Pino Daniele era abituato a convivere fin dalla giovinezza, in casa erano sei fratelli tutti cardiopatici. Aveva avuto due infarti, spariva a lungo per curarsi: era, tra l’altro, il mal di cuore, un segreto in comune con l’altro grande napoletano del secondo ‘900, Massimo Troisi, suo grande amico. Oltre a scrivergli tre colonne sonore, Pino aveva messo la note alla poesia di Massimo «’O ssaje comme fa ‘o core», che cantava sì l’innamoramento, ma entrambi sapevano bene che non solo di questo si trattava.
Partito dalle prime modernizzazioni di Peppino Di Capri, egli ha cercato, ancora sui banchi della ragioneria, di trascinare di prepotenza nel presente la sua città natale, fin dalla splendida «Napul’è» su «Terra Mia» del ‘77. Ha fatto abbracciare Napoli dalle musiche che ascoltavano i ragazzi, il rock il blues il jazz, e più tardi i suoni del Mediterraneo, in un afflato che inglobava l’uso del dialetto mescolato all’inglese e all’italiano, un gramelot efficace e venato d’ironia. L’effetto di quel nero a metà che cantava «Ji so’ pazzo» e «A me me piace ‘o blues» con la criniera leonina e l’aria un po’ tamarra fu devastante. Napoli lo abbracciò di un affetto riservato a pochi, immutato fino ad oggi malgrado egli abbia finito per abbandonare per sempre la città; e presto tutto il Paese fu ammaliato dall’energia che sprigionava ma anche dal rigore che portava sulla scena con le band, dalla voce particolarissima, dalla chitarra che mai ha smesso di studiare, in un’ambizione virtuosa che gli attirò l’interesse dei musicisti internazionali. Già la sua prima band fu tostissima, fra i ‘70 e gli ‘80, con gente come De Piscopo, Zurzolo, Senese e Marangolo, ma amò poi circondarsi in sala o sul palco da campioni come Wayne Shorter, Alfonso Johnson, Mino Cinelu, e i suoi concerti ebbero una caratura internazionale. Nel 2011 aveva incrociato la chitarra con Eric Clapton a Cava dei Tirreni, e poi l’invito di quest’ultimo al suo Festival Crossroad di Chicago lo aveva reso un uomo felice. Come spesso accade, la seconda parte della sua carriera era in parte virata verso il pop, per poi riprendere vigore ultimamente dalla riproposizione del vecchio repertorio. L’abbiamo visto un po’ stanco e rassegnato nel concerto recente all’Arena con molti colleghi anche dei talent, un tributo da pagare per farsi conoscere dai più giovani.
Pino Daniele era una persona umile, semplice e diretta, con precise idee sociali e una bella vis polemica che trapiantava anche nelle canzoni. Attaccò apertamente la nascente Lega in «’O Scarrafone» del ‘91 («Questa Lega è una vergogna»), e si scagliò contro l’amico Bassolino che aveva ricevuto in Comune il campione neomelodico Gigi D’Alessio: «Allora io posso abbracciare Fini e Alemanno», sbottò. Forse l’intervento della moglie Fabiola ne addolcì poi le attitudini, e lui e D’Alessio finirono per esibirsi insieme a Piazza del Plebiscito, in una serata del luglio 2008 non priva di fischi. Consola che se ne sia andato da innamorato. Stava vivendo una nuova felice storia con Amanda, una bionda cinquantenne che gli era accanto quando «’O ssaje comme fa ‘o core» è tornata a farsi, purtroppo, sentire.