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Popy Minellono ("L'italiano"): "sono un anarchico individualista"

Popy Minellono ("L'italiano"): "sono un anarchico individualista"
Paroliere, e orgoglioso di esserlo


Di Maurilio Giordana

Il comune di Sanremo ha scelto di rendere omaggio a Toto Cutugno con l’installazione di luminarie che riproducono il testo della canzone “L’italiano”, posizionate nella centralissima via Matteotti, davanti al Teatro Ariston. E' un tributo al popolare artista scomparso nell'agosto del 2023 e alla canzone più celebre del suo repertorio, il cui successo partì proprio dal palco del Festival di Sanremo.
Cutugno, però, firmò solo la musica della canzone.


Il testo è opera di Cristiano "Popy" Minellono, uno dei parolieri di maggior successo nella storia della canzone italiana, autore di hit come "Felicità" e "Ci sarà" per Albano e Romina, "Soli" e "Il tempo se ne va" per Celentano, "Mamma Maria" e "Se mi innamoro" dei Ricchi e Poveri.
Il sodalizio tra Minellono e Toto Cutugno iniziò alla fine degli anni '60 e durò fino a metà anni '80.

Come è nata "L'italiano"?

Ci sono due versioni: secondo la prima, l'idea viene a Toto che, in concerto in Canada, vede tanti italiani e pensa che sia giusto fare una canzone per loro, e poi io ne scrivo il testo. Poi c'è la mia versione: una mattina torno a casa dopo una festa durata tutta la notte, sono rimbambito ma non riesco a prendere sonno. Accendo la televisione e su Canale 5 c'è un programma intitolato "Buongiorno Italia". Penso "ma che bella frase!" e partendo da quel verso scrivo il testo della canzone, sulla musica che Toto mi aveva dato. Alla fine sono due storie parallele, che ad un certo punto convergono.

Poi proponete il brano a Celentano...

E lui ce lo rifiuta dicendo che è troppo ovvia e banale per lui, che gli sembra autoreferenziale, e che lui non vuole diventare l'emblema dell'Italia. A quel punto io, che ero il produttore di Toto Cutugno, decido di farla incidere a lui. È stata la sua fortuna.

E non avete pensato che avesse ragione Celentano e che la canzone fosse da scartare?

Ma assolutamente no! Io mi sono subito reso conto che la canzone aveva qualcosa di speciale, anche se era un periodo, che poi si ripete ancora oggi, in cui il Paese era dominato dai "radical chic", i comunisti con il Rolex. Appena tu nominavi l'Italia venivi etichettato come fascista. Io non lo sono mai stato in vita né ho mai pensato lontanamente di esserlo.


Celentano si sarà pentito di non averla cantata?

Non credo. Adriano è molto naturale nelle sue scelte. Lui probabilmente non l'ha cantata perché, essendo anche lui fondamentalmente di sinistra, forse ci ha visto anche lui una deriva fascista che proprio nella canzone non c'era.

A distanza di 40 anni c'è un verso della canzone che cambieresti?

Non cambierei nemmeno una virgola. E' una canzone senza tempo, una fotografia critica dell'Italia. Il verso "sempre più donne sempre meno suore" parla di un Paese che sta perdendo la propria vocazione cattolica. "Con troppa America sui manifesti" è una critica alla nostra tendenza a scimmiottare quello che arriva dall'estero. Portavamo "l'autoradio nella mano destra" perché altrimenti ce la rubavano dalla macchina: un Paese non proprio onesto. "La bandiera in tintoria" significa che sappiamo facilmente essere opportunisti. Insomma: un ritratto affettuoso ma anche critico.

Al Festival litigasti anche con i giornalisti per difenderla.

Certo. Roberto Vecchioni sulla prima pagina de "L'Unità" scrisse che la canzone era "banale e qualunquista". In conferenza stampa gli risposi che io avevo fatto una canzone per la gente e che, anche se la cosa mi faceva abbastanza schifo, pensavo di essere più comunista di loro!

E con questo ti sei giocato la possibilità di essere invitato al Premio Tenco...


Perché non mi reputano all'altezza. Secondo loro dovrei scrivere delle cose concettose alla Guccini. Ma a me non me ne frega niente. Secondo me la politica non dovrebbe mai avere a che fare con la musica.

Eppure tu eri amico di Fabrizio De André!

Ci siamo voluti davvero bene. Nel 1980 chiamò me per i testi dell'album "Mamamadori" di Dori Ghezzi. Secondo lui ero "un anarchico individualista", e io in quella definizione mi ci ritrovo molto.

Ti infastidisce essere chiamato paroliere?

Va benissimo, non lo trovo per niente offensivo.

C'è chi detesta quel termine...

Diciamoci la verità: Mogol ha venduto 40 milioni di dischi nella sua carriera. Io ne ho venduto 34 milioni solo con "L'italiano"...
Non sono arrabbiato per la definizione.


Sono arrabbiato per come viene considerato il paroliere in Italia. Sanremo è il Festival della Canzone Italiana e, fino agli anni ‘60, si annunciava la canzone vincitrice citando anche gli autori. Ora è diventato il Festival del cantante. Anni fa ho scritto una lettera al sindaco di Sanremo: ho vinto due volte, sono arrivato secondo quattro volte, ma non ho niente, nemmeno un piccolo certificato. Mi farebbe piacere avere una copia dei premi del Festival e sono disposto a pagarli io. Il sindaco non mi ha nemmeno risposto. Sanremo ha avuto una bellissima idea con le targhe in via Matteotti per celebrare le canzoni che hanno vinto, ma c’è scritto il titolo e il cantante, se è il Festival della Canzone Italiana devi mettere anche l’autore. Ora si celebra Toto ed è una cosa bellissima, viene esposto il mio testo celebrando Toto. Ma quel testo l’ho scritto io!.

Nella canzone italiana di oggi c'è un tuo erede artistico?

No, non c'è in giro un paroliere veramente completo. Non lo dico con superbia, ma non vedo qualcuno con la poliedricità che ho avuto io. Scusatemi il paragone esagerato, ma io ho fatto come i Beatles che hanno scritto "Yesterday" e "Something" ma anche canzoncine semplici e allegre come "Yellow Submarine" e "Ob-La-Di, Ob-La-Da". Io ho scritto "Mamma Maria" e "Felicità" ma anche "Soli" e "Il tempo se ne va", che sono di un'altra levatura.