MUSICA




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David Bowie fa 65 nel mistero - E' malato, pensionato o son favole?

New York

L’ultima volta l’hanno visto qualche giorno fa nel McNally Jackson bookstore a Soho, cappotto grigio e cappelluccio, mentre comprava un paio di DVD. Da lungo tempo sono solo quarci rubati di vita quotidiana a regalare notizie su David Bowie: l’inarrivabile Duca Bianco, il padrino del glamrock, oggi compie 65 anni e, come spiegò una volta, «ogni anno che passa è una percentuale della tua vita che se ne va». Avrà al fianco la moglie Iman e la loro figlia undicenne Lexy, nella quiete della casa di Manhattan che descrivono molto grande e molto english. Un quasi-anonimato soffice accompagna la sua vita dal 2004. Il 25 giugno di quell’anno, all’Hurricane Festival di Scheesel, in Germania, un dolore tremendo lo costrinse ad accorciare il concerto del tour di «Reality», suo ultimo album: dopo il bis di «Ziggy Stardust», svenne fuori scena. Fu portato in elicottero in ospedale. Infarto, operazione difficile, lunga convalescenza.

Un ritorno ai concerti fu annunciato e poi annullato nel 2007, e da allora su Bowie è calato il mistero, con voci sempre più allarmanti a percorrere il web che è peggio delle galline che strillano sui tabloid: cancro al fegato, si leggeva. Veniva dato per quasi morto finché nel 2010 la sua bassista Gail Ann Dorsey raccontò di averlo sentito al telefono per il compleanno del 2003 e di averlo trovato di buon umore: «Gli piace la vita di famiglia, ascolta gli Arcade Fire, jazz e musica cinese. Pensa che sia passato troppo tempo da quando ha smesso, teme che i troppi tributi che gli rendono possano far pensare che la sua carriera è terminata». Il fatto che da quelle parole siano passati due anni di silenzio, rotti solo dalla smentita che Bowie avrebbe concesso la colonna sonora per l’allestimento inglese di «Heroes: the musical», come segno complessivo non è granché.

Giornali inglesi riportano in questi giorni dichiarazioni rassicuranti di amici («Legge, dipinge, vede film, va a prendere la figlia a scuola»), ma l’approdo ai 65 (che Mick, Keith, Sir Paul si sono ormai lasciati alle spalle), arriva ancora nel segno del mistero, mentre prendono il via le celebrazioni di un personaggio seminale nella musica popolare della seconda metà del Novecento. Eppure David Robert Jones, figura enigmatica e mercuriale, un occhio verde e uno azzurro per una pupilla paralizzata durante un gioco infantile, non sapeva neanche bene lui dove parare quando cominciò a darci dentro col sassofono durante le superiori.

La ricerca di una dimensione artistica propria fu una specie di odissea disseminata di tentativi, fino all’uscita di «Space Oddity» che nel ‘69 doveva coincidere con l’allunaggio americano. Coincidenza che finì per rimanergli addosso, con una vocazione eterna al futuro e la negazione della nostalgia, mentre arrivavano i ‘70 e Bowie sposava Angela, faceva il primo figlio Zowie, e sorprendeva finalmente con «The Man Who Sold the World»: suoni pesanti, sintetizzatori, vocalità drammatica, nello stile che anticipava il lavoro successivo. Lo aiutava intanto la fama sulla sua ambiguità conclamata: dalla sua relazione con il ballerino e regista Lindsay Kemp, aveva ricavato una straordinaria capacità di creazioni sceniche e trasformazioni artistiche, e «The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars» arrivava nel ‘72 a disturbare la scena ormai accomodata del rock, trascinandola verso nuove prospettive che ancora fanno scuola (vedi solo Lady Gaga).

L’impatto fu fortissimo, anche sulla sua vita d’epoca, nella quale in questi giorni molti si divertono a scavare: «A metà dei ‘70, era sconvolto dalla cocaina. Viveva di peperoncini e latte ed era così sconvolto che conservava la propria urina nel frigorifero per la paura che gliela rubassero», scrive il Guardian. E anche lo stesso Bowie nel 1997 confessava: «Penso che Ziggy sarebbe probabilmente scioccato che: uno, sono ancora vivo; e due, ho riguadagnato qualche senso di razionalità a proposito della vita e dell’esistenza umana».

Fu comunque una stagione intensissima e feconda, innervata anche da memorabili esperienze cinematografiche come «L’uomo che cadde sulla Terra» (1976) e «Gigolò» (’79). Gli Ottanta gli fecero ancora cambiare pelle, fra le raffinatezze di «Let’s Dance», i primi tour-monstre, i Tin Machine. Ma, sempre, ogni uscita e apparizione del Duca Bianco ha portato a visioni destinate a fare scuola, nelle sonorità, nella tecnologia e nelle scenografie dei tour.



Marinella Venegoni

www.lastampa.it