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Francesco De Gregori: "Ora voglio una vita vivace e disordinata"

L'artista aprirà Traffic a Torinocon Brondi e Donà: «Perchè no? Amo gli incontri musicali»
Francesco De Gregori inaugura giovedì prossimo a Torino i concerti dell’ottava edizione di Traffic, il più grande fra i free festival europei, che resiste impavido ai tagli dei finanziamenti pubblici sciorinando su quattro sere un cartellone tutto italiano, in omaggio al Centocinquantenario dell’Unità. Sul palco di piazza San Carlo si confronteranno generazioni e stili diversi, dalla Pfm ai Verdena, da Edoardo Bennato ai rinati Area con Manuel Agnelli chiamato a ricoprire il ruolo che fu di Demetrio Stratos.

De Gregori condividerà il palco con Cristina Donà, rappresentante della leva cantautorale degli Anni Novanta, e con il giovanissimo Vasco Brondi, il giovanissimo talento che si fa chiamare Le Luci della Centrale Elettrica. Nuovi incontri per il Principe, dopo lo straordinario sodalizio con Lucio Dalla.
«Il tour con Lucio è finito – conferma De Gregori. - Dopo cento e passa concerti, quello che volevamo dire l’abbiamo detto. Non è escluso che ci siano altre occasioni, altre idee. Ma non sarebbe la prosecuzione di questo tour, che è durato già ben più di quanto prevedessimo».

E adesso Traffic: l’aspettavano da un bel po’...
«Sì, già due anni fa Max Casacci (leader dei Subsonica e direttore artistico del Festival, Ndr) mi aveva proposto un progetto, che non si realizzò perché già stava prendendo forma quello con Dalla. Stavolta Max è tornato alla carica: a novembre ero a Torino, e lui è venuto a parlarmi di questa serata sulla canzone d’autore, con Cristina e Vasco Brondi. Beh, mi sono detto, perché no?».

Che cosa farete?
«Faremo qualche pezzo insieme, ma non vorrei anticiparli, per lasciare un minimo di sorpresa. Se non li scrive, mi fa una cortesia».

Sono cortese. E con Vasco Brondi pensa di intendersi? L’hanno definito «il nuovo De Gregori».
«Penso che Vasco basti a se stesso, e poi non mi sembra che le sue canzoni assomiglino alle mie; lui viene da un mondo musicale diverso, molto sperimentale, però è ben ancorato alla forma canzone, in quel senso è davvero un cantautore».

Termine che lei ha a lungo rifiutato.
«E’ un termine che una volta gente come me un po’ si vergognava ad usare, ma le cose cambiano. Certo che se per cantautore si intende uno che, reclinato sulla chitarra, canta con voce flebile su tre accordi, beh, allora quel termine lo rifiuto. E chi lo accetterebbe?».

La serata di Traffic promette bene.
«Cristina e Vasco sono due artisti interessanti, e ho sempre amato gli incontri musicali, soprattutto in un festival, dove tutto accade con molta naturalezza. Anche di recente, al festival Poiesis di Fabriano, c’era Neri Marcorè e così, sui due piedi, abbiamo improvvisato insieme Caterina e Viva l’Italia, che ormai è una canzone che non si può non fare...».

E la situazione di oggi – la situazione sociale, politica, morale del Paese – non le ispira un’altra canzone così, di quelle che una volta si dicevano «impegnate»?
«Guardi, sto pensando a un nuovo album, ci lavorerò su quest’inverno, ho già parecchi spunti, ad esempio un pezzo sul mio famigerato “processo del Palalido”: però non credo proprio che parlerò di quello che avviene oggi in Italia: lo fanno già i comici».

Si chiama fuori?
«No, non è un rifiuto a priori, semplicemente non mi viene. Non mi interessa “esternare”, lo fanno già in tanti, a destra e a sinistra. Anche in passato, se ho scritto canzoni di un certo tipo, l’ho fatto sempre con un linguaggio sfumato, e senza un legame immediato con l’attualità. Viva l’Italia e La Storia, per dire, non sono legate alla loro contemporaneità. Per questo sono diventate dei classici: sono sempre attuali».

Purtroppo. Non tenterò quindi di estorcerle dichiarazioni «politiche». Sarebbe avvilente per entrambi. Però una sua opinione sulle ultime vicende, quanto meno sull’esito dei referendum, potrebbe darmela...
«Che vuole che dica? Il fatto che la gente vada a votare è positivo, sono contento: però le assicuro che al mattino non mi alzo con l’ossessione dei referendum, o di qualsiasi altra questione legata alla politica di giornata».

Con quale ossessione si alza?
«Beh, non parlerei di ossessioni, per mia fortuna. Oggi penso alla musica, ho rimesso insieme la mia band dopo la parentesi con Lucio, ho ripreso in mano il mio suono, le mie carabattole, sono in un periodo di grande effervescenza, proprio ora sto lavorando su una canzone, La testa nel secchio, che non ho mai suonato dal vivo, e che mi piacerebbe inserire nelle scalette del prossimo tour. Sarà un tour molto divertente: ho convinto i miei impresari a portarci in giro per i club, andremo al Vox, al Fuori Orario, a Hiroshima, in quei posti dove passa la musica più viva, e dove c’è un pubblico speciale, esigente, non “addomesticato”. Dopo tanti teatri, dopo un bagno di velluti rossi, sento il bisogno di ritrovare una dimensione, come dire?, più “disordinata”...».

Abbasso la routine, insomma.
«Non l’ho mai fatta, la routine. E’ faticosa e frustrante. E pure scomoda. Cerco di rimanere vivace, di non ragionare per schemi, di non dare retta a chi di default mi indica una strada ovvia. Cerco di metterci del mio, insomma».

Allora mi sorprenda. Lei è stato e resta il massimo avversatore di Sanremo: al Festival non ci ha mai messo piede, e secondo logica mai ce lo metterà. Benché, dopo la vittoria del nostro amico Vecchioni, fors’anche uno come lei potrebbe farci un pensiero...
«Chiariamo: non è importante andare o non andare al Festival di Sanremo. Sono scelte personali, legate alla cultura in cui sei cresciuto fin dai tuoi esordi. Non sono un integralista, e se mi piacesse il Festival ci andrei. Non è che non ci vado perché devo rispettare un fioretto: semplicemente, ciò che vedo a Sanremo non mi piace, e quindi non ci vado. Mi pare logico. Ma non è una questione di vita o di morte, Sanremo non è lo spartiacque della musica italiana».


Gabriele Ferraris



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