MUSICA




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​​​​​​​Parliamo dei nostri gusti musicali
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Mumford & Sons, quattro tipi anglosassoni. Sulla cresta dell'onda fra ballads e banjo




E' uscito "Babel", il loro secondo album. Un po' monocromatico, ma assai coinvolgente. Piacciono anche a Plant

Succede purtroppo poco spesso da noi che siamo diventati propensi più alle faccette televisive che non alla bella musica, ma altrove capita invece che spuntino gruppi che sempre più si ispirano alle atmosfere folk, riuscendo a intercettare anche abilmente una voglia di spontaneità o di libertà, e di canzoni da ascoltare da un palco godendo dell'insieme degli strumenti e di voci che rimandino all'immaginario del grande rockfolk di tradizione. E' successo così che i Mumford&Sons, gruppo londinese formato nel 2007 da Ted Dwane, Marcus Mumford, Winston Marshall e Ben Lovett, sia diventato in men che non si dica una delle presenze più acclamate del mondo indie, tanto che il secondo album «Babel» uscito da qualche giorno è arrivato su una base di notevoli vendite sia in Europa che in America del primo lavoro, «Sigh no more».

I Mumford hanno bruciato i tempi, già contano su un buon successo in Italia dopo alcune esibizioni live; già sono stati protagonisti di incursioni sul palco dei Grammy e hanno avuro incontri con Dylan e Springsteen e complimenti da gente come Robert Plant, che alla conferenza stampa dei venerandi Led Zeppelin la scorsa settimana a Londra, richiesto dei suoi ascolti di gruppi contemporanei, li ha citati dicendo: «Mi sembrano proprio in gamba» (comunque, mai si vedrebbe un inglese che non parli di un connazionale quando si tratta di emergenti).


Dietro tanto successo c'è la produzione di Markus Dravs, un tipo abituato a lavorare con Coldplay e Arcade Fire e qui impegnato in un lavoro di fino per tenere insieme i fili di ballads spesso accorate, venate di malinconia, e che spesso hanno una linea melodica alquanto omogenea; veramente Ondarock, che stronca l'album e non ama la band, scrive che sono canzoni tutte uguali. In realtà esse scorrono lietamente con una loro energia ruspante certo grazie al massiccio uso del banjo e della chitarra, e con impasti vocali ben costruiti.


Quel che sorprende in fondo è che quest'attenzione intorno al sound dei Mumford&Sons finisca per rivelare una qualche nostalgia o riscoperta di radici musicali delle quali per lo più sembrava persa la memoria: i quattro ci mettono del loro per apparire anche fisicamente adeguati al mood della loro musica. Quel che non sorprende, è che in Italia queste atmosfere musicali vengano accolte e apprezzate sì, ma purché non ci sia nemmeno il profumo di qualche tradizione locale.



Marinella Venegoni



www.lastampa.it



Mumford & Sons - I Will Wait

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