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I settant'anni di Mina, signora della canzone italiana - di Betty Risaliti

I settant'anni di Mina, signora della canzone italiana

Sta succedendo qualcosa, nell’Italia del 1958 prossima al miracolo democristiano, al trabiccolo Fiat per tutte le tasche, alla villeggiatura per tutte le classi, al teleschermo per tutte le case. C’è voglia d’America, di Hollywood, di rock’n’roll, di mode e di modi a stelle e strisce. Quelli del baby boom, che saranno quelli del Sessantotto, ma sono intanto l’u ltima generazione dell’autoritarismo prebellico, non sono di norma sveglissimi (come saranno, viceversa, i loro figli, i loro nipoti), e però a quei bambinotti, a quei ragazzetti – prima ancora che a molti adulti perbene e parecchio scandalizzati – la bella figliola diciottenne, Mina Anna Mazzini da Cremona, piace al primo colpo. Urla, storpia, singhiozza, gesticola, spalanca due occhi da matta, è alta in un mondo dove ancora prevalgono i tappi, burrosa il giusto in un tempo non ancora mestamente dietetico. Trapassa, soprattutto, l’elettrodomestico catodico vieppiù democratico, nella stagione declinante della pallosissima melodia all’italiana già incrinata, proprio in quel ’58 e proprio a Sanremo, dal Modugno che canta la liberatoria Volare. Magari furoreggia il demenziale alla Fred Buscaglione, e avanza il confidenziale (precantautoriale) da night alla Bruno Martino. Ma l’aria è vecchieggiante. Tajoli, Togliani, Latilla, Consolini, la Pizzi, la Boni, la Torielli, Flo Sandon’s... restano lì, voci educate e gesto composto, un po’ piagnoni e un po’ caramellai, e tuttavia sul punto di cedere il campo (resisterà a suo modo il Reuccio) all’a ggressiva pattuglia degli urlatori alla sbarra, Joe Sentieri e Tony Dallara, Betty Curtis e Jenny Luna... Spiccano (e resisteranno) i due rockettari di razza: subito coppia reale dei juke-box, al bar e sui lungomare, un boom di 45 in nero vinile, un bel disco insieme, qualche anno fa, da fuoriclasse sempreverdi. La rivelazione coglie il teleutente strabiliato del

Musichiere il 4 aprile 1959: Adriano Celentano lancia Il ribelle, Mina la versione a singulto della melensa, sanremese Nessuno di Wilma De Angelis. Il popolo dell’< em>hula hoop, di Paul Anka e dei Platters e dei Fraternity Brothers, il giradischi a tutto volume con Diana e Only you e Passion Flower, chi ama Elvis e si dondolerà col twist, trova finalmente in casa le sue nuove icone.

Mina. Un nomino, due sillabe, ma non un nomignolo. Il nome anagrafico, esplosivo come l’estrosa ragazza che lo porta. Il nome senza il cognome, con qualche celebre precedente (Milly, Mistinguett), e di lì in avanti una stucchevole moda informale, insufficiente (Milva a parte) a garantire un duraturo successo. Gorni Kramer, pur coraggioso alfiere dello swing Italia, non ci prende proprio. Dice, o direbbe, alle prove di quel Musichiere: «Quella comincia e finisce stasera». E invece il primato è istantaneo: senza fatica, senza gavetta, senza neanche la voglia – raccontano – di raggiungerlo veramente. Ha una certa naturale pigrizia, un certo snobistico disinteresse, anche per i segni del pentagramma, ma ha un talento straordinario: la voce, ovviamente, e l’istinto, la memoria, l’orecchio, il leggendario “ buona la prima!” (incisione) che la rendono unica, assoluta, siderlamente distante da cantanti, cantantini e giullari domestici, per alcuni sublime come Maria Callas, per altri migliore di Barbra Streisand. Col tempo, quella voce estesa per oltre due ottave diventa un’orchestra, un duttile strumento per tutti i generi. Dall’ acerbo urlo jazz-rock del debutto alla limpida pienezza melodica che vibra agilissima tra i bassi e gli acuti, che modula all’infinito, che si estenua in recitazione e risale vertiginosa. Fino agli esperimenti divaganti, giocosi e virtuosi del suo secondo tempo, quello dell’assenza, colfunky, col rap, col pop-soul: a conferma (forse poco aggiungendo all’epoca d’oro) dell’eccellenza di colei che resta a tutt’oggi, pur dall’e silio ticinese, la first lady della canzone italiana.

Sì, la voce. Le canzoni magnifiche al primo ascolto, specie quelle post-urlate dei mezzi Sessanta, ma anche la presenza scenica, il magnetismo che incolla al video immense platee adoranti. Interprete seducente ed entertainer gradevole, mai fastidiosa, superba in duetti da telemito. E molto bella, sempre più bella da guardare. La Rai fa di Mina una diva, Mina fa grande la Rai. Non c’è ancora posto, in regime monopolistico, per le mezzecalzette, intorno a lei soltanto coprotagonisti o comprimari di rango: le gemelle Kessler e Don Lurio, Lelio Luttazzi e Luciano Salce, Walter Chiari e Paolo Panelli, Alberto Lupo e Raffaella Carrà... La bacchetta è di Bruno Canfora o di Gianni Ferrio, i testi di Verde, Sacerdote, Marchesi... E in regia c’è Antonello Falqui, un maestro del varietà. I tre Studio Uno, Sabato sera, Canzonissima 1968, Teatro 10, fino al Milleluci dell’ultima apparizione seriale: è l’epopea della tv leggero-elegante, è il trionfo della sua prima donna. Canta sigle indimenticabili, il gran finale attesissimo, un frammento della vita di tutti. Non si spegne, figurarsi!, anche se magari la vedette non sempre compare. Non si spegne: perché c’è Mina che canta la sognante Due note, Mina che canta Sabato notte (quando «scintilla la Tour Eiffel», si sa..., e alla provincia d’Italia par di vederla, la torre – s’intende), e Mina che canta, per la turbolenta Canzonissima di Dario Fo, Stringimi forte i polsi, un testo oggi illustre, di pugno di un Nobel a venire... E poi Mina che canta Soli, Conversazione, Vorrei che fosse amore, Mina che canta con Lupo Parole parole, Mina che fuma e che cantaNon gioco più, secondo qualche minologo l’annuncio del vicino congedo. E infine Mina con la clip dell’addio, e quell’Ancora..., stupenda e un po’ hard, di Cristiano Malgioglio, in chiusura a un programma di altri. È l’e state del ’78, dalla Bussola, il suo tempio versiliese, dove, vent’a nni addietro, esordisce in sordina, e da dove, in agosto, esce di scena. Tutta in primo piano, carnale, le palpebre luccicanti di glitter dorato, canta con sensualità che la Rai giudica imbarazzante, provvedendo a manipolarne l’immagine.

Amata dai vertici di Viale Mazzini come forse nessun’altra, simulacro di culto nostalgico, divina il cui ritorno s’invoca con suppliche inascoltate, Nostra Signora della Musica incorre, al tempo di un amore eslege che attizza un’intacitabile canea scandalistica, in uno storico oscuramento. Quella dei primi Sixties è un’Italia altamente bigotta, ferma agli statuti moral-moralistici del precedente decennio: quando il dc Oscar Luigi Scalfaro, cattolico ultrarigorista, e oggi ulivista forse più comprensivo, irriferibilmente insolentisce la malcapitata signora Edith Toussand, rea d’indossare, in un giorno di caldo, un prendisole che le lascia le braccia e le spalle scoperte..., o quando il vescovo di Prato accusa tonante di pubblico concubinaggio due giovani rei di sposarsi al cospetto del sindaco e non del ministro di Dio. Mina anticipa l’emancipazione femminile ormai imminente, ma ancora inesistente. Molti amoretti, molte chiacchiere, sinché la giovane stella incontra il giovane attore, bello, trasgressivo, romantico, l’occhiglàuco per cui tutte le teen-agers impazziscono: l’Alphonse de Lamartine di Graziella, il protagonista de Il caso Mauritius, il futuro, vibrante, Dmitrij Karamazov. Quel Corrado Pani, scomparso, che è il pupillo in teatro di Luchino Visconti, il divo del gran teleromanzo alla Majano e alla Bolchi in onda sul Nazionale, e – soprattutto, nel caso – il padre ammogliato del figlio che lacelebrity attende con gioiosa disinvoltura. Quando ricompare in Rai, sdoganata da Mike Bongiorno, lei esibisce una voce più morbida, più flessuosa, comincia a cantare le sue grandi canzoni di donna: Città vuota, il successo del rientro, e poi quelle arrangiate da Augusto Martelli, il nuovo libero amore. Ha fama di una che taglia di netto, con gli uomini, con gli amici, di una che il gioco lo conduce e non lo subisce. Tocca anche al pur valoroso musicista, una colonna sonora che va da È l’uomo per me a E se domani, da Non credere a Un’ombra a Bugiardo e incosciente... Tocca anche, mentre lei cambia pelle con Lucio Battisti, al giornalista Virgilio Crocco, un matrimonio bizzarro, una figlia, un abbandono devastante, che riconsegna il giovanotto a quell’oscurità in cui va incontro alla morte su una strada del lontano Wisconsin. Segnano il tempo Insieme, Io e te da soli, Amor mio, E penso a te, Tony Renis ci mette la sua tre volte Grande. La star si ritrova vedova mentre canta E poi..., la prima un po’ osée. Alza il tiro con L’importante è finire, un’a ltra granetta con la Rai, un’altra storia: lui è il beateggiante, come lei tiratardi e giocatore di carte, Alfredo Cerruti, negli Ottanta, con Arbore, il corbellatore di «Volante uno. Volante due»...
Corre l’anno di Sabato sera – e lei, su di peso, non è neanche al meglio, e poco le dona lo stile optical scelto da Folco –, quando la s’incorona Miss Copertina 1967: cinquantanove in un biennio, più – nell’ordine – di Sophia Loren, Claudia Cardinale e Farah Diba. La musica, gli amori, i lutti, il fisco, il corpo: tutto diventa un fenomeno di costume, un’o ssessione voyeuristica, un’idiozia nazionale. E per la diva un’i ntollerabile molestia. L’immagine è invasiva, la mimesi immediata. Di suo non può dirsi propriamente elegante, e di certo lei se ne infischia, ma l’epifania mediatica fa subito moda. La ragazzayé-yé in calzoni stretti, pianelle e camicetta annodata, la signorina di buona famiglia in versione Sanremo, vestiti a trapezio, a palloncino, a tulipano, la corolla bianca a pois blu come le mille bolle senza festivaliera fortuna. E la sophisticated lady in lungo super-sera del glorioso ritorno in Rai, i costumisti a sfogarsi su quel metro e settantotto che tutto sopporta, compresi gli abiti spettacolari del premio Oscar (Otto e ½ Piero Gherardi per un memorabile ciclo di caroselli (e quella di Mina testimonial, promotrice di birra, pasta, cedrata – un vero mini-evento tv –, è un’altra piccola storia di grande arte). E poi c’è la Mina esibizionista (o no: vai a sapere...), lei che soffre del pubblico, dissennato assedio, e che nondimeno si presenta all’avida folla – metti una sera d’inverno del 1970 al Verdi di Pordenone, sul palco con Giorgio Gaber, lei fresca di fragorosissime nozze – in mini-tunica nera, calze fumées, gambe mozzafiato, chioma castano-biondo fluttuante, enormi occhi a trucco spiovente. Magra, bianca, vertiginosa, al culmine del suo fulgore. E c’è anche la Mina che sfida le convenzioni, indossando alla Bussola una sottoveste nera trasparente, slip in vista, niente reggiseno. Per vent’anni, quasi non c’è donna in Italia – adolescente, mamma, vecchiarda – che non voglia qualcosa alla Mina: le scarpe col cinturino, il taglio alla Sagan, il testone stoppato, l’< em>eye-liner all’insù, l’eye-liner all’ingiù (il make-up primi Settanta di Gil Cagné resta strepitoso), le sopracciglia rasate, le spazzole finte, i riccioli sciolti, i cerchioni agli orecchi...

L’artista che potrebbe conquistare il mondo, tanto è... Brava, bravissima, la donna bella, e talora bellissima, e molto felliniana che dice no al maestro (e Il viaggio di G. Mastorna, film annunciato e mai girato è un tormentone epocale dei mezzi Sessanta), la cantante perfezionista e del pari menefreghista che si rifiuta alla Scala e risponde picche a quel Frank Sinatra disposto a lastricare d’oro l’Atlantico, ecco... lei, Mina, a un certo punto si eclissa: e rivai a sapere perché, visto che si racconta ritrovi, sotto il tendone in delirio di Bussoladomani, il vecchio entusiasmo. Libera – dicono – di vivere a proprio modo, senza diete, senza orpelli, in casa e soprattutto in famiglia, da matriarca, perché se sì, se gli uomini cambiano (ma da decenni le è accanto il cardiologo Eugenio Quaini, sposato qualche anno fa), le sono sacri il padre e la madre, ormai perduti, e i figli (e carissimi i nipoti). La diva lunare, la diva lunatica si concederà dalla sua lontananza celeste, una voce al microfono radio, una voce su disco, un’immagine forte su tante copertine surreali, barocche, ludiche, quel suo volto così singolare, inclonabile, ancora (pare) candido e fresco, che nel 2001 ricompare a sorpresa sulweb, la deroga virtuale alla dimensione dell’ assenza. Una firma da prima pagina, anche, la ragioniera mancata che oggi – dicono – è lettrice onnivora, e da opinionista sfodera – vedi mai – finezze ortografiche e dotte citazioni. Non ha l’aria di una che rimpiange qualcosa, di una che torna indietro. Ha l’aria, che è un’aria di giovinezza, di una che sta al passo, talora non senza manierismo, che guarda sempre e solo in avanti. Magari, a guardare indietro, sull’onda della nostalgia, è l’a ttempata platea dei suoi fedeli di sempre. Quelli che ne ricordano il dirompente esordio, il superlativo successo, la libertà amorosa, il piglio eversivo, la bellezza mutante, l’influenza estetica. Quelli cresciuti e ingrigiti col sottofondo del suo canto meraviglioso, con le parole del suo catalogo sentimentale infinito: a indelebilmente segnare un anno di scuola, una vacanza al mare, un incontro, un addio, un legame indissolubile. I soli per i quali questo settantesimo compleanno della signora, il 25 marzo prossimo, appartiene anche alla loro vita.

Messaggero Veneto - Udine
(21 marzo 2010)