MUSICA




​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

​​​​​​​​​​​​​​

​​​​​​​Parliamo dei nostri gusti musicali
​​​​​​​

​​​

MUSICA
Start a New Topic 
Author
Comment
Nell’ottobre del 1959, con il Musichiere, era uscito Ho scritto col fuoco di Mina

Nell’ottobre del 1959, con il Musichiere, era uscito Ho scritto col fuoco di Mina. La cosa mi aveva molto sorpreso. Di solito, nei flexi del Musichiere venivano pubblicate canzoni interpretate da artisti diversi rispetto alle versioni popolari trasmesse alla radio o nei juke-box. A inaugurare la serie dei flexi del Musichiere era stato Con tutto il cuore, cantata da Anita Traversi con l’Harmon-Pells Ensemble (numero 20001), un disco che, incredibilmente, conservo ancora oggi, a distanza di oltre sessantaquattro anni.
A rendere famosa questa canzone in Italia era stata Betty Curtis. Non ero un acquirente abituale del Musichiere. Compravo qualche rivista di tanto in tanto, quando le mie scarse finanze me lo permettevano. Successivamente erano uscite altre canzoni, come Signorinella, interpretata da Vittorio De Sica. Quei pochi dischi costituivano la mia discoteca “virtuale”. Virtuale perché, non possedendo un giradischi, non potevo mai ascoltarli. Erano dischi snobbati da chi aveva un giradischi. Alla fine degli anni Cinquanta, non erano molte le famiglie nel mio palazzo a possederne uno. Una delle poche era quella di Aldo, un ragazzo di un anno più grande di me, la cui madre gestiva una sartoria. La mamma di Aldo lavorava nel suo laboratorio in centro e non era mai a casa. Restavano i due figli: Aldo e la sorella maggiore Adriana. Aldo sembrava più interessato a giocare e a correre in bicicletta che ad ascoltare musica leggera. Il giradischi era territorio esclusivo di Adriana. Nelle mattinate di quelle giornate estive del 1959, suonava e risuonava il 45 giri di Harry Belafonte, Banana Boat. “Sai che mia sorella ha un quaderno con i testi delle canzoni?” mi diceva Aldo. Avevo avuto modo di vedere quel quaderno dalla copertina azzurra. Non conoscevo ancora l’inglese, ma quelle parole mi sembravano improbabili:
“Workana Drinkaram. Delight comma and we want go home. Sta banana till the morning come. O mister Talimon Talimi Banana”.
Portavo con me i miei due flexi: Con tutto il cuore e Signorinella, ma se il primo veniva accettato con qualche riserva (“Ma non è mica Betty Curtis che canta!” diceva Adriana in tono sprezzante), De Sica non aveva alcuna possibilità di essere ascoltato. “E poi quei dischi di plastica rovinano la puntina!”
“Davvero?” Ero incredulo. Lo diceva sul serio o era solo una scusa per suonare esclusivamente i suoi dischi? Possedeva anche il 45 giri di Modugno, Piove, o Ciao ciao bambina, come lo chiamava lei. “Guarda che li regalano con il Musichiere,” insistevo, come a dire: “Quelli del Musichiere non sono mica gli ultimi arrivati, possibile che diano dischi che rovinano le puntine dei giradischi?”
Nel frattempo, come dicevo, la mia collezione era passata da due a tre dischi. All’inizio di ottobre del 1959 era uscito Ho scritto col fuoco. “Ho anche un disco di Mina,” avevo annunciato trionfante. Ma, sebbene per me fosse già una grande artista, in quell’estate del 1959 erano in pochi a considerarla tale. Ad Adriana piaceva di più Betty Curtis. “Ma non hai visto Mina al Musichiere?”
In aprile, al Musichiere, Mario Riva aveva ospitato Luciano Tajoli, un cantante melodico che, bendato, doveva indovinare i nomi dei giovani “urlatori” che uscivano da dietro un juke-box. Erano apparsi, nell’ordine: Jenny Luna, Tony Dallara, Mina, Gaber e Celentano.
Mina aveva cantato Nessuno in un modo completamente diverso rispetto a come l’avevano interpretata a Sanremo Betty Curtis e Wilma De Angelis.
Ma Adriana non aveva visto la trasmissione, né aveva visto Mina a Buone vacanze, quando aveva cantato Splish Splash.
Al mio flexi Adriana aveva concesso un solo ascolto. “Scriviamo almeno le parole nel tuo quaderno… dai…” avevo supplicato invano, sperando in un secondo ascolto.
Da mia sorella non potevo andare. Si era sposata da poco e dal viaggio di nozze era tornata con una cartolina musicale comprata a Napoli, che per me sembrava l’ottava meraviglia. Era di formato 20 x 12 e conteneva Anema e core. Non c’era scritto chi la cantasse, ma la canzone era bellissima. Non mi stancavo mai di vedere quella cartolina girare sul piatto e di ascoltare la melodia. Mia sorella aveva anche un extended play di Carosone e uno dei Cetra. Del primo mi incantava Mo vene Natale, con quelle voci registrate a velocità doppia che io chiamavo “le voci delle paperine”, e dei Cetra mi piaceva Evviva la radio a galena, con tutti quegli effetti curiosi.
Ho scritto col fuoco non lo portavo da lei. Temevo che mi rimproverasse, come quella volta che ero andato al cinema con Aldo a vedere Le notti di Cabiria.
“Ma non è mica un film per bambini!”
“Non era vietato. C’era scritto solo ‘adulti con riserva’.”
E poi, rivolta a mia madre:
“Lo sai che film è andato a vedere domenica tuo figlio?”
A mia madre, che non conosceva il film, quel “notti” associato a un nome come Cabiria faceva pensare a qualcosa di inadatto per i miei dieci anni e mezzo.
“Chi lo tiene fermo questo qua!”
“Ma siamo andati ai posti più economici, in galleria, io e Aldo.” Come se, più del film che mia sorella giudicava inadatto alla nostra età, mi premesse sottolineare che non avevamo speso una fortuna, anche se eravamo andati all’Odeon, una sala di prima visione.
“Sua mamma sapeva che andavamo a vedere quel film e non ha detto niente.”
Mi chiedevo cosa ci fosse nel film che non avrei dovuto vedere.
Forse le due ballerine di colore statuarie del night club che si esibivano quando arrivavano Amedeo Nazzari e Dorian Gray? O Dorian Gray stessa? Quanto a Cabiria, io la consideravo solo una figura buffa. Omnia munda mundis. Non avevo capito che Cabiria fosse una prostituta. A me sembrava solo una poveretta a cui andava tutto storto. Dopo tante disavventure aveva trovato un bravo giovane disposto a sposarla, ma alla fine lui le aveva rubato tutti i soldi che aveva nella borsetta.
Nel frattempo, Adriana aveva comprato anche il 45 giri di Gilbert Bécaud, Le jour où la pluie viendra. Il testo era stato trascritto nel suo quaderno azzurro. Le giornate non iniziavano più con Banana Boat di Harry Belafonte, ma con:
Le jour où la pluie viendra
Nous serons, toi et moi
Les plus riches du monde
Les plus riches du monde
Anch’io mi ero comprato un quaderno delle Regioni d’Italia, su cui avevo trascritto il testo di Con tutto il cuore. Quando andavo da lei, me lo portavo dietro. Con l’anno nuovo, Adriana sarebbe andata a lavorare in sartoria con la madre. Io avevo già iniziato a frequentare la seconda media. Proprio uno degli ultimi giorni dell’anno mi fece ascoltare per intero Ho scritto col fuoco. Una, due, tre volte. Potei trascrivere tutto il testo. Come mi sembrava strano sentire prendere vita quel flexi che di solito restava muto, compagno silenzioso in un cassetto della mia scrivania!
E quanto avrei voluto avere un giradischi tutto mio! Sarebbero dovuti passare ancora cinque anni prima che potessi avere il mio primo giradischi e i miei primi 45 giri “veri”.
Ai primi di novembre, in Piazza Primo Maggio erano arrivate le giostre e i baracconi per la fiera di Santa Caterina. Una di quelle tradizioni che resistono, continuando a esercitare un fascino che non si è ancora spento e a richiamare pubblico, piccoli e grandi.
Gli altoparlanti degli autoscontri trasmettevano senza sosta la nuova canzone di Mina:
*Abbronzate tutte chiazze
Pelli rosse, un po’ paonazze
Son le ragazze che prendono il sol...
Ma ce n’è una che prende la luna!
Tintarella di luna,
Tintarella color latte,
Tutta notte stai sul tetto,
Sopra il tetto come i gatti,
E se c’è la luna piena
Tu diventi candida…*
Salendo la stradina con la borsa vuota e scendendone con la borsa piena, mi fermavo volentieri a guardare gli autoscontri e ad ascoltare Mina cantare. Una corsa costava cinquanta lire, e non so quanto tempo passassi lì con la borsa a penzoloni, senza un soldo in tasca e tanta voglia di averne, mentre mia madre aspettava l’amido per stirare le camicie: “Quando ti mando a fare qualcosa, non si sa mai quando torni!”
Aveva ragione. Una volta che mi mandarono a prendere il pane, mentre la commessa serviva gli altri clienti, feci una scappata in giardino.
“Mia mamma mi ha detto di farti fare un giro sugli autoscontri.” Farti fare! Se me lo dicessero oggi, non so come reagirei, ma allora non si badava troppo alle formalità, e ci andai. Altro che offeso, ero soddisfattissimo di quel “farti fare”. Con Adriana, le trecce bionde raccolte sulla nuca, che ci guardava, Aldo e io salimmo sulla piattaforma degli autoscontri. In quel momento, se me l’avessero chiesto, non avrei nemmeno saputo dire che strada avevamo fatto per arrivare lì. Eravamo completamente assorti. “La mamma vi raccomanda di tenere la destra,” gridò Adriana, immobile tra la folla, e partimmo.
Destra! Quale destra! Qui si trattava di decidere chi dovesse guidare, altro che destra! Ma eravamo d’accordo entrambi, e nonostante Aldo mi rinfacciasse a ogni curva e anche sul rettilineo che era sua madre a pagare, non mollai il volante un attimo, su cui ci eravamo buttati entrambi con foga.
*Tin, tin, tin, raggi di luna
Tin, tin, tin, baciano te.
Al mondo nessuna
È candida come te!
Tintarella di luna,
Tintarella color latte,
Tutta notte stai sul tetto,
Sopra il tetto come i gatti,
E se c’è la luna piena
Tu diventi candida*
Io quella ragazza che prendeva la luna sul tetto me la immaginavo bionda, candida come Alessandra Panaro, la valletta del Musichiere…
Tira di qua, tira di là, sbandando sui bordi della pista con un fracasso immaginabile, ora a destra, ora a sinistra, e contro i fianchi delle altre automobili. Due volte bloccammo il traffico: la prima per un deragliamento, la seconda per un groviglio di macchine in cui c’era anche la nostra…
E se c’è la luna piena
Tu diventi candida
E se c’è la luna piena
Tu diventi candida… candida… candida!
A un certo punto, un addetto del baraccone saltò in corsa sulla pedana della nostra automobile, prese il volante con la sinistra e, in piedi, ci guidò per il resto del giro, mentre noi due avevamo le mani libere sulle ginocchia.
Il cicalino. Fine corsa. Tutto finito.
Certo, il luna park è davvero un’altra cosa rispetto alle giostre e ai baracconi. Ma soprattutto, negli anni, è forse cambiato quel senso di magia e quella sorpresa di chi non aveva videogiochi, né televisione, né cartoni animati, di chi non navigava su internet e non conosceva i film di Guerre Stellari.
E aspettava i baracconi per salire sui “baby luna”, piccoli vagoncini orbitali a forma di astronave, oggi quasi reperti di modernariato, mentre le madri raccomandavano un solo giro perché con l’aria ci si sarebbe sicuramente ammalati. Sì, perché c’era sempre tanto freddo (un freddo che raggiungeva il culmine proprio nei giorni in cui arrivavano le bancarelle con la loro mercanzia, e così non si poteva sperare nemmeno in un anticipo di regali extra).
Bisognava aspettare Santa Lucia, che era senz’altro più simpatica perché portava regali senza pretendere soldi in cambio. Santa Caterina era senza dubbio più divertente, ma molto più costosa. Servivano infatti soldi per salire sulle giostre. Per i più coraggiosi c’erano anche le montagne russe, che oggi, in qualsiasi parco di divertimento moderno, sono almeno trenta volte più emozionanti.
Un tempo, comunque, Piazza Primo Maggio veniva chiamata Piazza di Santa Caterina, o Piazza dei Baracconi, proprio perché quei giorni di novembre, con la sagra, le giostre e le bancarelle, erano attesi da tutti. Per respirare l’odore dello zucchero filato, il profumo del mandorlato (cioè del torrone), per farsi ipnotizzare dalla voce di un venditore di piatti che riusciva a farne girare come un giocoliere qualche dozzina pur di vendere. “Venite, venite…” Il congiuntivo approssimativo affascinava anche gli studenti del liceo classico, i più fortunati, che potevano distrarsi dalle lezioni guardando fuori dalle finestre delle aule e precipitarsi per primi, appena suonava la campanella, sulle attrazioni preferite.
Passata Santa Caterina, il 25 novembre, i baracconi partivano per Gorizia, per la festa di Sant’Andrea. Tra la santa e il santo, appena il tempo di smontare le tende di qua e rimontarle di là. Sul Giardino Grande, che solo la sera prima era un carnevale di confusione, calava il sipario. Un silenzio da veglione all’alba. Gli alberi incutevano freddo e paura. Erano diventati grigi, e nel grigiore del cielo, che insieme ai vapori grigiastri esalati dalla terra umida condizionava il colore dell’ambiente, sembravano fantasmi. Solo la basilica delle Grazie da una parte e il castello dall’altra si intravvedevano attraverso i rami secchi della foresta pietrificata, malinconicamente protesi nell’aria immobile, fumosa, sconsolata.
E noi, tra gli alberi, come fantasmi anche noi, muti, stupefatti, sgomenti, doloranti, a guardarci intorno nel deserto, a cercare i segni di una vita che fino a ieri era reale, fervida ed eccitante, a cui noi stessi avevamo partecipato, e che adesso, invece (possibile?), non esisteva più, incredibilmente spenta, assurda scomparendo nel giro di una notte.
Passato Natale, accantonata l’Epifania, con la neve ancora sui tetti – dove, negli angoli più freddi e perennemente in ombra, rimaneva qualche traccia – alla Candelora si diceva che fossimo a cavallo.
In realtà, arrivati a San Biagio, con le gole benedette in castello, si scendeva quasi al tramonto e ci si accorgeva davvero che le giornate si stavano allungando e che il freddo non era più lo stesso. Non serviva nemmeno più il cappotto, che cominciava a pesare.
“Ho caldo io o fa proprio caldo?”
Era una conferma ufficiale. Le date ci davano ragione. L’inverno finiva e la primavera era in arrivo. Poteva succedere da un momento all’altro.
“Senti che aria! Sembra di rinascere. Domani scommetto che sul Cormor spuntano le viole.”
Eravamo di casa. Lo conoscevamo da sponda a sponda, metro per metro, albero per albero, sentiero dopo sentiero. Ci andavamo per amare la natura, per prendere aria che in città ci mancava, per ritemprare lo spirito, che ci mancava pure quello, per rinforzare i muscoli, che avrebbero dovuto essere in pari con lo spirito, ma anche per spiare le coppiette innamorate e imparare da loro come si fa.
E cantavamo:
Folle banderuola
Che giri, giri, giri con il lampo.
Lassù dal tetto vedi che son tante
Le folli, folli come te.
Tirintirintintin…
Comunque, le viole. Le trovavamo, le avremmo messe in un bicchierino d’acqua come prova che la primavera era arrivata.
Non temere se il cielo s’oscura
È una nuvola passeggera.
Fra le braccia, mio amor, ti stringerò così
Ritornerà l’azzurro.
“Grazie, che belle, che profumo!”
E adesso le rondini.
A San Benedetto, la rondine sotto il tetto.
Ua ua ua ua ua ua ua ua
Ua ua ua ua ua ua ua uaaa…