MUSICA




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​​​​​​​Parliamo dei nostri gusti musicali
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Mina e Balenciaga hanno molto in comune

Mina e Balenciaga hanno molto in comune
Balenciaga Music | Mina Series – le analogie in due itinerari artistici apparentemente lontani: Mina e don Cristóbal hanno preferito celarsi dietro le cortine del mito, una vita senza compromessi, alla ricerca dell’astrazione
Balenciaga Music | Mina Series – Demna Gvasalia e il legame tra Mina Mazzini e don Cristóbal Balenciaga
Demna Gvasalia, sperimentale designer georgiano, sembra aver compreso molto della personalità del fondatore della Maison, che conduce dal 2015. Lo dimostra anche in questo nuovo progetto – Balenciaga Music | Mina Series – dominato dall’ombra gigantesca e dalla voce duttile di Mina. Esiste un’affinità che si miscela alla mistica del geniale misantropo Balenciaga, che tuttora è la forza basilare del marchio. Individualità che, Demna come demiurgo, si accomunano in una visione comunicativa di scambio e compenetrazione. Magari non ci ha nemmeno pensato, ma il legame si legge tramite analogie sottese analizzando due itinerari artistici apparentemente lontani.

Cosa hanno in comune Mina e Balenciaga – la musica e il costume, la ricerca dell’astrazione
Mina diventa icona nel canto, ma incide anche sul costume, in quegli anni Sessanta del Novecento in cui Cristóbal Balenciaga raggiunge vertici creativi e di ricerca che rimangono impossibili da emulare. Entrambi cercano l’astrazione e l’incorporeità. Demna Gvasalia ha più volte ripercorso con intelligenza la tensione che pervade l’ultimo periodo creativo del fondatore – l’ansia di geometria prima della calata del sipario nel 1968 e del definitivo ritiro nei Paesi Baschi.

A differenza di tante esercitazioni banali che si susseguono nella moda degli ultimi anni, Gvasalia è riuscito a padroneggiare la lingua tagliente dell’haute couture rileggendo il vocabolario impervio e sparigliando le regole stabilite da don Cristóbal. Mina, autoesiliatasi in un’impenetrabile dimensione borghese nell’elvetica Lugano, si è negata a ogni contatto diretto con il pubblico, rifiutando i frames di culto della propria mitologia. La sua voce però vince e trapassa ogni schermo, sgretola il baluardo protettivo di qualsiasi normalità, riempie lo spazio del palcoscenico vuoto. Oggi è più pastosa e carica di sfumature scure.

Il repertorio di Mina, come osserva Demna Gvasalia, riesce a leggere momenti topici delle nostre vite
La Tigre di Cremona incatena chi l’ascolta come quando dominava il palcoscenico della Bussola o ruggiva, regina incontrastata del sabato sera, dallo schermo televisivo in bianco e nero. Il timbro è cambiato e insieme inconfondibile, forse più evocativo, ruvido e romantico. Basti pensare a Luna Diamante, una canzone notturna che impreziosisce un recente film di Ozpetek, dove Ivano Fossati, che la canzone l’ha scritta, le fa da contraltare.

Il repertorio di Mina, come osserva Demna Gvasalia, riesce a leggere momenti topici delle nostre vite. Penso a Raso, anno 1993, una frase come mantra personale e riflesso speculare: Perché so che ci sei anche se non ci vediamo. Le metamorfosi di Mina sono tante e avvincenti. Cancella di colpo quello che c’è stato un attimo prima, sfreccia via eternamente moderna e cangiante. In Neve, 1992, come la precedente opera del duo Donzelli-Leomporro, eccola di nuovo rivolgersi un refrain di sapore autobiografico: ma sei, sei come la neve sei, che tocchi e sciolta già e non sai più dov’è.

Il plot di un romanzo spesso cupo incapsula l’esistenza quasi fantasmatica del Maestro di Getaria, di cui Gvasalia ha saputo tradurre la lezione dentro un’energia che si confronta con il contemporaneo. La immerge in una dimensione atemporale, anche se non più ieratica, che, qualche boutade da social media a parte, contraddice a molta della confusione che imperversa sulla scena attuale del fashion. Demna rilegge le radici e le sfide estetiche di un brand che chiude i battenti mentre si alzano le barricate del Maggio francese per volontà di chi l’aveva creato e fatto crescere dagli inizi in Spagna, ma soprattutto da quando, nel 1938, esplode possente in una Parigi sperimentale ed ostile.

Mina Mazzini ha flirtato con la propria immagine e con la moda con divertimento
Mina, per vincere ogni cronologia, si reinterpreta e cambia secondo gradazioni e una carica emotiva in evoluzione continua. Le si deve perdonare perfino il duetto con Blanco, peraltro diventato l’ennesimo successo. Mina Mazzini ha flirtato con la propria immagine e con la moda con divertimento, senza mai prendersi troppo sul serio. Di certo non era schiava dei Diktat dei sarti o degli stylist. Dopo il debutto da urlatrice e i look da rockabilly del Po, caparbiamente riesce a imporre mille differenti ispirazioni, da quelle oniriche de Le mille bolle blu fino a un sofisticato glam grande soirée, a partire dai primi anni Sessanta.

Nelle puntate di Studio Uno, sulla scenografia astratta e sintetica si staglia negli outfit asciutti di Mila Schön; nel rinascimento pop di Germana Marucelli; i trapezi brocade un po’ Klimt di Jole Veneziani; i profili rarefatti di Fabiani. Gli anni Settanta – dopo l’iconizzazione costruita da Piero Gherardi nei mitici Caroselli Barilla sullo sfondo di scabre architetture industriali (la stazione di Napoli in costruzione o il Grattacielo Pirelli a Milano), significano minigonne e marabù, scolli bias cut e capelli cotonati, vernice bianca e teatrali cat-eye.

C’è la Mina patinata e espressionista, una specie di Marella Agnelli by Otto Dix, che Corrado Colabucci concepisce per il trionfale Milleluci, varietà del 1974 che resta un caposaldo della storia della televisione italiana. C’è quella calda e passionale del palcoscenico versiliano sul quale conclude drasticamente il suo corpo a corpo con un pubblico più che mai in delirio. Fourreau nero, le mani sinuose si intrecciano nell’aria, gli occhi bistrati della Lulu di Pabst e una criniera più da leone che da tigre. Nel 1996, da tanti anni racchiusa nella sua capsula irraggiungibile, per il disco Cremona che la riporta idealmente nella città natale, Mauro Balletti sulla copertina la incastona in un outfit Versace dove spicca un drammatico inserto rosso lacca.

Balenciaga Music | Mina series includes limited-edition eyewear and T-shirts
The Balenciaga Music | Mina Series T-shirts
Mina ha sempre rifiutato di togliersi dal collo le sue catenine porte-bonheur, anche quando stonavano rispetto all’effetto generale del look
Mina è paludata in una volumetria tessile come la maga Alcina, diventa una diva del recitar-cantando quale la Poppea dell’opera omonima di Claudio Monteverdi, suo illustre conterraneo. La treccia-signature sboccia dalla testa dai capelli biondi tirati al massimo, gli occhi sono incorniciati dal kajal d’una veggente orientale. Tra gli aneddoti di cui Mila Schön era prodiga e che ho avuto la possibilità di raccogliere personalmente a più riprese, spicca il fatto che Mina ha sempre rifiutato di togliersi dal collo le sue catenine porte-bonheur, anche quando stonavano rispetto all’effetto generale del look.

L’ultimo capitolo di questa schermaglia con il fashion, prima della joint-venture con Balenciaga, è il remix di Ancora, rieditata da Mark Ronson, che ha accompagnato riesplodendo come tormentone discografico la sfilata di debutto di Sabato De Sarno al timone di Gucci. Filtra quel pathos rovente che, sui lyrics spudorati e camp di Cristiano Malgioglio, aveva ordito l’autore della musica originale del pezzo, Gian Pietro Piter Felisatti. Quando la canzone esce nel 1978 scoppiò uno scandalo, intervenne la censura e molte radio rifiutarono di programmarla.

Mina non era nuova a provocazioni simili. La sua carriera è costellata di episodi come questo, fanno parte del suo epos esagerato.

La capsule nata dalla collaborazione tra Balenciaga e Mina: Balenciaga Music | Mina
L’inedita accoppiata è protagonista della capsule Balenciaga Music | Mina Series, in vendita a partire dal 19 settembre 2024. La notizia è stata diffusa attraverso una conversazione tra il fashion designer georgiano e Massimiliano Pani, figlio maggiore e produttore dei dischi della cantante. Parallelamente alla capsule, Mina ha realizzato una playlist di 50 brani. Nella stessa data è pre-rilasciato in edizione limitata L’amore vero, estratto del nuovo album di Mina in uscita a novembre. Una novità che segna la prima volta in cui Mina collabora ufficialmente con una maison di moda per un progetto di merchandising e in cui pubblica musica inedita in partnership con un brand.

La capsule comprende una t-shirt in edizione limitata con il volto della cantante e, sul retro, la lista completa dei suoi 106 album (compilation escluse). L’etichetta della t-shirt, ha spiegato Demna Gvasalia, sarà dotata di un chip Nfc (Near Field Communications) che, attivato da un dispositivo compatibile, sbloccherà l’ascolto de L’amore vero. Ci sono anche un paio di occhiali da sole la cui forma delle lenti è ispirata al make up di Mina. La firma della cantante è incisa a laser all’interno, insieme a un QR code che rimanda al brano.

Demna Gvasalia conferma la propria ammirazione per la Tigre di Cremona, che ha scoperto per caso nel 2011 sentendola alla radio, mentre era in un ristorante in Veneto
«Prima che me ne accorgessi, mi sono ritrovato a esserne ossessionato. Mi sono immerso nelle esibizioni live, nei suoi album… Era semplicemente l’interprete giusta per quel periodo della mia vita, durante il quale nella musica cercavo un mezzo per dare voce alla malinconia e alla tristezza che avevo nel cuore a seguito della rottura di un legame».

Di sicuro non è stato il solo a trovare una corrispondenza simile dentro i songs d’amore di Mina. Ne esiste uno per ogni singola gradazione emotiva, chiave ideale per ogni sfumatura o momento relazionale felice o disperato che sia, dall’innamoramento all’abbandono. Un’ammirazione ricambiata, ha confermato Massimiliano Pani, dall’interesse che Mina nutre per il lavoro di Gvasalia, che trova audace e pionieristico, caratteristiche nelle quali con tutta probabilità si riconosce. Per cui ha subito accettato l’idea di collaborare con questa iniziativa di Balenciaga che è un omaggio alla sua carriera e alla sua personalità.

Mina, foto di Mauro Balletti
Mina, foto di Mauro Balletti
Mina e la moda: gli abiti non le interessavano, affermava Mila Schön, eppure resta un riferimento
Mila Schön vestiva spesso Mina nell’âge d’or degli anni Sessanta e affermava che a non le importasse niente degli abiti che avrebbe indossato. Era talmente immersa nella musica e nel suo mondo che non se ne curava per niente. Mina resta un riferimento per la moda, frequentata con assiduità e facoltà di reinvenzione sperimentale. Basti pensare alla serie dei caroselli Barilla, messi in scena da Piero Gherardi nel 1967 in location insolite e folgoranti, quali le architetture littorie dell’EUR a Roma o il grattacielo Pirelli. Non si può dimenticare Mina che intona l’impervia e trascendentale struttura di Se telefonando.

Evergreen del 1966 che incrocia il compositore Ennio Morricone con i lyric del duo Maurizio Costanzo – Ghigo De Chiara, avvolta in un groviglio di cavi telefonici, misterica e quasi klimtiana sul tetto della stazione di Napoli Centrale ancora in costruzione. La sua voce echeggiante di sonorità metalliche ne L’ultima occasione, sullo sfondo di un arcadico paesaggio fra Poussin e Pasolini e delle rovine di un ponte a Tor di Nona. Infine, la Mina-geisha di Ebb tide. Atemporale. In fluttuante kimono off-white e smisurato ventaglio che ondeggia come una farfalla pop sul molo di cemento industriale della spiaggia deserta davanti agli stabilimenti dell’Italsider di Bagnoli, oggi non più esistenti.

Mina, alias Mina Anna Mazzini. Lombarda, nata a Busto Arsizio il 25 marzo 1940
Totemica e carica di significazioni, catalizzatrice di risvolti simbolici e di onirismo, di messaggi e di presagi universali – l’hanno chiamata la Tigre di Cremona. In ambito pop e camp, Mina costituisce una semantica a parte. È la maga dal gesto sinuoso, astratto e imprendibile tracciato nell’aria. È la pioggia di marzo e madama Doré. È un gioco di specchi e un sortilegio allegorico tra sincerità e mistificazione. Mina, alias Mina Anna Mazzini. Lombarda, nata a Busto Arsizio il 25 marzo 1940. Cantante, conduttrice televisiva, attrice e produttrice discografica – recita l’enciclopedia più attuale. Ruggenti gli esordi padani in balera appena adolescente col nome di Baby Gate tra gli urlatori sul finire degli anni Cinquanta, mentre esplode come una bomba la morgana del boom economico (si esibiva nelle balere del cremonese con la sua prima band, gli Happy Boys.

Fu il titolare della Italdisc, Davide Matalon, a metterla sotto contratto dopo averla ascoltata a Casteldidone – ndr). Grazie alla sua voce Mina attraversa con il vento in poppa oltre mezzo secolo di storia italiana e seguita, anche nascosta dietro le quinte di una privacy invalicabile, a esercitare un regale dominio sull’intero immaginario del Bel Paese. Dell’Italia e delle sue infinite contraddizioni, Mina, in una sorta di ossimoro profetico, è il suggello e insieme l’antitesi. Popolare e sofisticata, romantica e femminista. Libera, incurante dei clichées e del perbenismo, assomma provocazione e indipendenza, metempsicosi e slancio di futuro. Per paradosso è insieme signora borghese appartata dalla placida vocazione casalinga e ragazzaccia geniale.

Mina: icona gay e ispirazione per la il mondo della moda, rinunciò alla carriera internazionale dicendo no a Frank Sinatra che la voleva in America
Ribelle, bizantina e icona gay. Infaticabile. ispirazione per la moda, in fourreau nero e catenina d’oro, sul palco fino alla catarsi e alla consumazione di sé, forse in fondo capricciosa e pigra. Ha rinunciato a una carriera internazionale, dicendo di no a Frank Sinatra che la voleva in America (si dice, per l’invincibile paura che le incutono gli aerei). Onnivora nel repertorio. Poliglotta, ha inciso dischi in spagnolo, portoghese e inglese, in turco e in giapponese, vedi il manga-song Sette mari, di modernità metafisica. Ha cantato in napoletano, indimenticabile la sua criptica e sommersa versione di Sciummo di Concina e Bonagura. E in genovese. Ha sconfinato nel sacro. Flirtato con il diavolo in persona e inneggiato a una mica tanto arcana robina qua scatologica con divertito humour bambinesco e vagamente snob. La galleria dei suoi successi non finisce mai. La sua discografia si frantuma in mille riflessi e seduzioni, spalanca file onusti di ricordi ed emozioni. Calzante, immancabilmente. Sentimentale e mélo. Carica di suggestioni e interrogativi. Vera e fictional.

I testi delle canzoni e i duetti – Mina, suo malgrado, è diventata il fil rouge e lo specchio ustorio di vizi e virtù italiote
Parole parole – Mina in un rimpiattino implacabile con Alberto Lupo. Il sognante ottativo di E se domani. La trama onomatopeica e fiabesca delle Mille bolle blu. L’ivresse cristallina e l’ardua escursione di note in scala dal basso all’alto e viceversa dell’impareggiabile Brava. Poi, le atmosfere sessuali esplicite e l’allusione orgasmica de L’importante è finire. La struggente e conflittuale Bugiardo e Incosciente di Paolo Limiti. Neve, Vivere, Volami nel cuore, remake di Samuele Bersani e di Manuel Agnelli. I duetti con il vecchio amico Adriano Celentano. Capace di mille virtuosistici funambolismi vocali, proprio come una divina creatura transgender uscita dai fasti dell’opera barocca, Mina, suo malgrado, è diventata il fil rouge e lo specchio ustorio di vizi e virtù italiote, in un divampante falò di tic e vanità, in un vortice opulento di pura rappresentazione.

Mina, il successo e il ritiro dalle scene
Un cocktail di imprevedibilità e delirio divistico che sfiora sfere mistiche e kabuki, che polverizza l’aggregante kermesse canora del Festival di Sanremo, tormentone che ogni anno, come un vaticinio, ci regala un differente ritratto della nazione. Mina che imbroccava le registrazioni al primo colpo, sicura, senza esitazione alcuna. Mina che ha capito tutto. Medianica pitonessa del vinile ha previsto in largo anticipo la valanga di greve volgarità che avrebbe travolto tutto quel mondo televisivo patinato, rarefatto e in fondo ingenuo. Tutta quella garbata e gloriosa definizione di star system che le apparteneva. Si è portata via.

Si è votata a un’esistenza di donna normale, consegnandosi però a un’aura mitologica quando, nel 1978, come una Greta Garbo nostrana, si è sottratta alle scene celandosi dietro le pesanti cortine purpuree della sua stessa leggenda. Volatilizzandosi del tutto dai media, da quel piccolo schermo di cui nella magica stagione tra i Sessanta e i Settanta catodici ormai sdoganati pure da Francesco Vezzoli, è stata l’incontrastata regina del sabato sera. Mina si è trasformata in luminoso fantasma dalle manifestazioni cruciali. Attesissime, proprio perché diverse. Sideralmente opposte nel senso e talvolta mirabilmente kitsch, permettendo che soltanto le grafiche e le fantasiose rielaborazioni del suo volto per le cover, in particolare di Tallarini e di Balletti, fossero il luogo della celebrazione e del pubblico riconoscimento del suo verbum.

Milleluci, l’ultimo varietà italiano in cui Mina divideva la conduzione con Raffaella Carrà – poi il ritiro dalle scene nel 1978 a Viareggio
«Non conosce vergogna, ha proprio cantato di tutto, povera ragazza», sibilava di recente e malignamente una sua scorata collega, antica compagna di battaglia ancor oggi in attività. È proprio questa la forza di Mina: l’aver cantato tutto e di tutto. Quasi con sconsideratezza dégagé. Con orgogliosa e infantile impudenza, trasformando ogni hit in un qualcosa che appartiene solo a lei e che si trasfigura in una dimensione altra. Ogni tanto scopri una canzone che ti era sfuggita. Come quel piccolo incalzante gioiello estivo scritto da Augusto Martelli, Noi due, che è quasi la sinopia di una sceneggiatura di Godard o di un film di Antonioni.

Risale al 1974, lungo la collana delle puntate tematiche di Milleluci, regia dell’insuperato maestro del genere Antonello Falqui. Milleluci, l’ultimo grande varietà italiano in sublime bianco e nero, in cui Mina divideva la conduzione con un altro mostro sacro d’ogni generazione, Raffaella Carrà. Specie la sigla finale, Non gioco più, dove magrissima, quasi emaciata, elegante come non mai, con acconciatura un po’ Marella Agnelli e pesante trucco espressionista degno della Lulu di Pabst e della prima Marlene Dietrich, tra lurex e piume, aspirando fumo da un lungo bocchino, recitava non senza ironia il ruolo di cinica femme fatale. Il refrain, annoiato e ipnotico, magari già preannunciava il suo imminente ritiro, avvenuto appunto nel 1978 e reso memorabile dai 14 recital d’addio sold out alla Bussola di Viareggio. Antonello Falqui, grande ermeneuta del sabato sera della RAI monocanale, l’aveva capito subito di che pasta fosse fatta la signora Mazzini.

Nel 1964 la dovettero richiamare a furor di popolo perfino dopo l’esilio per la nascita del figlio Massimiliano avuto dal bel tenebroso Corrado Pani, attore sposato e fedifrago, fatto che produsse enorme fragore di scandalo e pruriginosa curiosità nell’Italietta bigotta e perbenista di allora. La TV era controllata da una censura inquisitoria, che paludava le prodigiose gambe delle gemelle Kessler in spessi e castigati collant neri, temendone gli effetti peccaminosi. (La storia con Corrado Pani non rimane l’unica che Mina sceglierà di vivere secondo le proprie regole. Nel 1970, a pochi giorni dal primo incontro con il giornalista Virgilio Crocco, il più classico dei colpi di fulmine si trasforma in un matrimonio lampo. Nasce la seconda figlia, Benedetta – ndr).

Le canzoni di Mina e il legame con Lucio Battisti: lo spettacolo al Teatro 10
La quinta puntata di Teatro 10 entra nella storia della televisione italiana per i nove minuti in cui Mina – abito nero lungo e maniche trasparenti, chioma fiammeggiante e leonina – e Lucio Battisti dividono il palco e il repertorio. Le prove non erano andate bene, con la band di Lucio arrivata da Roma in treno per risparmiare sul volo e che, per la stanchezza, non riesce a trovare il giusto feeling sul palco. Adriano Celentano, che era nei paraggi con l’orecchio teso, ironizza: «Oh, se vi serve qualcuno io sono qui» – ndr). Mina, come nessuno, ha saputo cambiare di continuo, entrando e uscendo da estetiche, da generi e da ruoli musicali. Surfando tra le attese e le esigenze di un consumo di massa e di una ricerca personale punteggiata da interpretazioni epocali e cult da brivido.

Cesare Cunaccia