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Alex Britti: ‘Alla fine torno sempre alle canzoni’

Alex Britti: ‘Alla fine torno sempre alle canzoni’
La filosofia del cantautore e chitarrista romano: ‘Vado d’accordo con tutti quelli che suonano bene’


Di Davide Poliani

In vista della prossima edizione della Milano Music Week, in programma nel capoluogo lombardo tra i prossimi 18 e 24 novembre, NUOVOIMAIE - tra i promotori della manifestazione - propone una serie di incontri con protagonisti del panorama musicale italiano non solo per approfondire le dinamiche artistiche che caratterizzano il lavoro di chi opera nel settore, ma anche per fare il punto su come gli attuali scenari del mercato impattino sulle opportunità professionali di chi ha scelto la creatività come professione. La parola, oggi, va ad Alex Britti…


Eccezion fatta per l’album strumentale “Mojo” del 2022, è dal 2017 - anno di pubblicazione del secondo capitolo del dittico “In nome dell’amore” - che Alex Britti è assente dal panorama discografico con un disco pop. Non che il cantautore e chitarrista capitolino, negli ultimi quattro anni, in questo senso non sia stato attivo: a partire dal 2020 l’artista ha spedito sul mercato sei singoli - “Brittish” e “Una parola differente” nel 2020, “Nuda, “Tutti come te” e “Supereroi” nel 2023, e il recente “Uomini”, uscito all’inizio di quest’estate. Impegnato nel corso della bella stagione in un lungo tour che ha toccato praticamente tutta la Penisola (e oltre, da Lugano a Pantelleria), Britti ha fissato l’ultimo appuntamento dal vivo coi fan per l’anno in corso il prossimo 18 ottobre, al Palazzo dello Sport di Roma. Un evento dalla grande valenza simbolica, che lo vedrà tornare a esibirsi in una delle venue più prestigiose della sua città natale. E un ottimo pretesto per tracciare un bilancio di questi ultimi anni…


La tua ultima data in calendario del tuo tour 2024, quella del 18 ottobre “in casa”, al Palazzo dello Sport di Roma, lascia intuire che ci sia qualcosa da festeggiare. Come, per esempio, l’uscita di un nuovo disco…


Un disco, oggi? Boh…


Non ti convince l’idea di pubblicarne uno?

Viviamo l’epoca di Spotify, dove ognuno sceglie di sentire le canzoni che vuole. Il concetto di album in senso tradizionale l’abbiamo un po’ perso, ecco perché ho scelto di pubblicare solo singoli. Poi sì, uscirà anche un raccoglitore di questi singoli, che chiameremo “album”…


Un approccio di questo tipo al processo di pubblicazione cambia il tuo modo di lavorare? Penso al tuo ultimo disco, lo strumentale “Mojo” del 2022, che invece era stato concepito come album “classico”...

Sì, ma più che altro cambia l’utenza. Chi cerca un disco strumentale vuole sentirsi l’album. Chi ascolta le canzoni, invece, cerca i brani. Lo vedo coi conteggi degli stream riferiti al mio catalogo: “La vasca” ha un determinato numero di passaggi, mentre altre canzoni - estratte dallo stesso album - ne hanno altri, decisamente più bassi. E’ una cosa che succede a tutti gli artisti, nazionali e internazionali: i singoli passati in radio e promossi da video riescono ad accumulare molti passaggi, gli altri no.



Fino a “.23” del 2009 sei stato su major [Universal Music, ndr], poi da “Bene così” del 2013 hai iniziato a pubblicare da indipendente, attraverso la tua etichetta It.Pop: il fatto di non dover più rendere conto a nessuno, in termini discografici, ti fa sentire più libero, quando si parla di pubblicazioni?

Onestamente non è che la mia situazione sia cambiata così tanto, rispetto al passato. Sono sempre stato il produttore dei miei lavori. Adesso è vero che non ho una casa discografica, ma quando pubblico qualcosa di nuovo ho un team che fa lo stesso lavoro che prima veniva svolto da quello della major, quindi elabora strategie, si occupa di promozione, comunicazione e tutto il resto. C’è sempre qualcosa che stabilisce quando uscire, e come uscire.


Con “Tutti come te”, “Nuda”, “Supereroi” e “Uomini” sei tornato a privilegiare la tua parte autoriale, spostando il focus dal tuo strumento, la chitarra…

Io vado a sensazione, a istinto.


Ci sono periodi nei quali privilegio l’aspetto strumentale, altri che mi vedono più cantante. Anche come ascoltatore, le cose troppo “intrippate” - mi si passi il termine gergale - mi stancano. L’aspetto strumentale va bene, ma poi, inevitabilmente, torno alle canzoni. Mi piace scriverle, e mi sono posto anche la sfida, come produttore, di trovare nuove sonorità diverse, cercando sempre di inserire la chitarra senza però essere troppo invasivo nei confronti della forma canzone. E’ come se stessi cucinando in un ristorante popolare, per palati popolari, ma con i miei ingredienti: anche quando faccio una canzone pop, mi piace farla in un certo modo, con un certo tipo di gusto….


Il fatto di aver lavorato con Salmo [facendosi produrre da rapper “Brittish” nel 2020, per poi “restituire il favore” l’anno successivo, registrando una parte di chitarra in “A Dio”, inserita in “Flop”, ndr] ti ha stimolato, come produttore, nell’apertura a sonorità di derivazione urban e hip hop e, più in generale, alla nuova generazione di artisti?

Sì, senz’altro. Anche se il mondo rap e hip hop non posso dire di trovarlo nuovo tout court. Quando avevo 19 anni e stavo facendo il militare, alla fine degli anni Ottanta, grazie a “Fa’ la cosa giusta” di Spike Lee, ascoltavo i Public Enemy. Non sono un rapper, ma il rap è un genere che ho sempre considerato molto. Già in “Gelido” [traccia d’apertura di “It.Pop” del 1998, primo disco “ufficiale” di Britti, ndr], avevo sostituito il convenzionale special strumentale con una parte rappata. Perché in fondo il rap è un’evoluzione naturale del talking blues già frequentato da Bob Dylan e Arlo Guthrie: alla fine è solo il vestito che cambia.


Quelli come Maurizio [Pisciottu, nome all’anagrafe di Salmo, ndr] che vengono dal rock e dal punk li considero cugini, perché il blues è diventato rock, per poi diventare punk, rap e via così. L’origine è comune: l’Africa, il blues, il funk. George Clinton registrava parti .talking già negli anni Settanta: era già rap. Per questo non lo considero nuovo: perché ha già una tradizione.


Nessuna preclusione, quindi, quando si parla di generi?

Assolutamente no. Ho sempre suonato blues, ma non sono “razzista”: vado d’accordo con tutti quelli che suonano bene.


Tornando alla data del 18 ottobre a Roma, è lecito aspettarsi sorprese in termini di scaletta, set e ospiti?

Certo, anche se non ho ancora pensato a una regia particolare. Credo che ci sarà un momento acustico, anche in funzione dell’intervento di ospiti. Però non ci ho ancora messo la testa, davvero…


Che periodo è, quello che stiamo vivendo oggi, per i diritti degli artisti?

E’ un momento storico ancora troppo condizionato dai cambiamenti per avere un’idea precisa: tutte le svolte epocali sono accompagnate da una certa confusione, soprattutto nelle fasi iniziali.


Per esempio, le radio private - nate come “libere” negli anni Settanta, che oggi stanno soffrendo molto la concorrenza delle piattaforme streaming, ci hanno messo più di vent’anni per regolarizzare stabilmente la propria posizione riguardo i diritti della nostra categoria. Oggi, rispetto agli anni Settanta, la novità non è più la radio, ma le grandi realtà digitali e l’intelligenza artificiale generativa. A livello normativo c’è ancora confusione: il mio auspicio, ovviamente, è che si faccia ordine il prima possibile. Del resto ognuno ha il periodo storico che si merita….


Detta così, non sembra una visione molto ottimista…

No, non è pessimismo: è una constatazione. Tutto quello che abbiamo avuto nella musica, a livello di industria, è figlio di un boom esploso negli Stati Uniti negli anni Cinquanta. A noi che stiamo vivendo quest’epoca non sta andando poi così male: sicuramente chi fa questo mestiere oggi è più povero di chi lo faceva negli anni Ottanta, ma è sicuramente più ricco di chi lo faceva prima degli anni Cinquanta. Come Robert Johnson, che suonava per vitto, alloggio e mezza bottiglia di whisky. E se andava bene qualche mancia…