MUSICA




​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​



​​​​​​​Parliamo dei nostri gusti musicali
​​​​​​​

​​​



MUSICA
Start a New Topic 
Author
Comment
Anche le rockstar invecchiano: il doc su Bon Jovi

Anche le rockstar invecchiano: il doc su Bon Jovi ci mostra come
La forza di 'Thank You, Goodnight' sta nell’ammissione di debolezza del suo protagonista



Di Elisa Giudici
Quattro puntate e oltre quattro ore di documentario non riescono a risolvere davvero la dicotomia alla base di quattro decenni di carriera dei Bon Jovi. Da una parte c’è una band rock di successo planetario, capace di centrare il tour più grande e profittevole dell’annata a 20 anni dal proprio esordio, conquistare la cima della classifica country prima che ci provasse Beyoncé e avvicinare un’intera nuova generazione con una hit (”It’s my life”) arrivata quando per molti erano ormai vestigia del passato.


Dall’altra c’è l’elefante nella stanza, a cui “Thank You, Goodnight: The Bon Jovi Story” concede poco spazio. Il fatto che i Bon Jovi e Jon Bon Jovi siano spesso (sempre?) stati presi poco sul serio. Prima le hit mondiali degli anni ‘80 ignorate dai Grammy, poi il taglio di capelli del cantante che fa più notizia dell’uscita del nuovo album, infine il tardivo ingresso nella Rock Hall Of Fame, conquistato dopo 30 e passa anni di successi.

La critica non li ha mai amati. Pur avendo un’infornata di successi che buona parte del pubblico saprebbe ancora cantare a memoria (anche contro la propria volontà), il lascito musicale della band sembra sicuro solo nella testa del cantante. Si fa solo un fugace accenno a quanto questa mancanza di riconoscimento critico abbia fatto soffrire frontman e band. Un gruppo che già dagli albori ha tra i proprio padri nobili Bruce Springsteen, gli Scorpion, i Kiss, ma che difficilmente viene accostato a questi nomi.

Raccontare una rockstar come un campione sportivo
Vedendo “Thank You, Goodnight: The Bon Jovi Story” si riesce a mettere a fuoco almeno questo: quale sia il fattore che abbia causato questo cortoircuito: Jon Bon Jovi sin dall’adolescenza è un figlio del New Jersey, della working class americana. Niente lussi, niente ricchezza, ma neanche niente di cui preoccuparsi davvero, con un tetto sempre sopra la testa e il cibo in tavola, un’infanzia spensierata che culmina nella scoperta della musica e del carisma di chi ha il dono naturale di stare sul palco.


Il protagonista di “Thank You, Goodnight: The Bon Jovi Story” è lui. Il regista e produttore Gotham Chopra finisce per cucirgli addosso qualcosa di abbastanza differente dalla tipica docuserie con cui una vecchia gloria racconta la sua scalata al successo, l’oblio e il ritorno sulle scene con un nuovo album.

Nonostante Bon Jovi abbia un singolo e un album in arrivo, il documentario diventa un lancio promozionale solo negli ultimi 10 minuti. Per il resto è il curioso incrocio tra un racconto molto ben documentato e montato dell’incredibile storia dei Bon Jovi e una storia intima, sofferta, successa di fronte a Chopra praticamente per caso. Si vede che nel suo passato il regista ha raccontato storie di grandi campioni sportivi ormai ritirati, soffermandosi su infortuni, problemi fisici, l’addio alle scene. Quando è Bon Jovi, inaspettatamente, a scontrarsi con i limiti del suo corpo, non può nascondersi dall’obiettivo di Chopra e viene raccontato come un atleta il cui tempo sembra essere scaduto.

Quando un leader carismatico perde il controllo
Il vero valore di “Thank You, Goodnight: The Bon Jovi Story” si rivela solo a chi ha la pazienza di dargli il tempo di scoprire la sua vera linea temporale. All’avvio infatti il documentario gestisce due linee temporali: il presente e il passato, ricostruito attraverso memorabilia, cimeli, pezzi e registrazioni mai usciti dall’archivio. E un approccio ormai standard per questo genere di prodotti. Si passa dai capelli cotonati ai volti con le rughe che si riguardano e raccontano come si sentivano all’epoca.


Le riprese per il documentario cominciano nel 2022, quando Bon Jovi e i suoi si riuniscono assieme e provano per 3 settimane, prima di iniziare un tour con una ventina di date negli Stati Uniti. Una cosa da niente per chi ha alle spalle tour mondiali da 300 e passa date, e una stringa praticamente ininterrotta di presenza sulle scene dalla prima hit “Runaway” fino ai primi tentativi solisti di Bon Jovi a inizio anni ‘90.

Per il documentario Bon Jovi organizza una scorsa del suo catalogo, tirando fuori da un archivio - ordinato, pulitissimo, fatto di custodie ben etichettate, musicassette conservate in buste sottovuoto - demo e incisioni in studio. La sua preparazione per il tour è maniacale: laser per stimolare la voce, chiropratica, esercizio fisico, esercitazioni con vocal coach. La voce è più fievole, la stampa come sempre non è tenera, ma l’impegno è massimo.

Non serve nemmeno il flashback per capire come i Bon Jovi abbiano raggiunto il successo. Da queste poche scene capiamo tutto quello che c’è da sapere. Quanto sia metodico, concentrato e centrato Bon Jovi come artista, come uomo e come lavoratore. Uno che ha sempre detto a gli altri “seguitemi e credete in me, vi porterò dove vogliamo andare”, prendendosi sulle spalle responsabilità enormi per un ventenne, ma esigendo impegno e lealtà assoluti.


Il carismatico leader e il control freak, che però perde inaspettatamente il controllo dopo i 60 anni. Dopo la tappa di Nashville, lo vediamo scendere dal palco, dice di sentirsi bene. Stacco. Pochi minuti dopo, abbattuto, rivela cosa gli abbia detto la moglie Dorothea Bongiovi - sposata dopo un fuga a Las Vegas nel 1989 e da allora al suo fianco. La donna lo ha preso in contropiede, rivelandogli che la sua performance non era all’altezza. Se non è al 100%, lui non vuole esibirsi.

Eccolo l’infortunio sportivo, il pensiero del ritiro, mai accarezzato da un figlio del sogno americano che crede fino all’eccesso nel lavoro duro, nella responsabilità, risultando credibile come rockstar pur scansando per tutta la vita gli eccessi che in teoria il ruolo impone. Un qualcosa di poco più grande di un’unghia, una corda vocale, lo costringe a valutare la mortalità della sua carriera.

Un brivido: ma quindi “Thank You, Goodnight: The Bon Jovi Story” è il doc che annuncia il ritiro dalle scene di Jon? Sì e no. È un documentario che vuole essere una celebrazione di una band che ha affrontato il passare del tempo evolvendosi e dimostrando di poter rimanere sulla cresta dell’onda. È un compendio che, senza mai darlo a vedere, mette insieme un numero di obiettivi e traguardi raggiunti che suona anche come un j’accuse a una cricca musicale che li ha sempre snobbati.


Bon Jovi vs Sambora
La parte più interessante però è quella contenuta nella terza e quarta puntata, in cui succede l’inaspettato e Chopra si trova in una posizione privilegiata per poterlo documentare. L’intervento alle corde vocali, il COVID, la morte di Alec John Such, che abbiamo ascoltato commentare la storia dei Bon Jovi nelle puntate precedenti.

La storia succede e Chopra è lì a riprenderla, rendendo il documentario improvvisamente più intimo, malinconico, ruvido. Bon Jovi si ritrova a confrontarsi con la sua mortalità, con la fallacità della sua voce, con una band che il tempo smussa e assottiglia. È il terzo episodio che affronta forse il passaggio più spinoso: l’addio alle scene del chitarrista, cantante e compositore Richie Sambora, nel 2013.

Anche qui Chopra gode di un punto di vista unico. Sambora infatti accetta d’intervenire e Bon Jovi accetta di fargli raccontare la sua versione della storia. Sin dagli albori della band il doc racconta un rapporto creativo e umano fatto d’intesa, competizione, tensioni, amicizia. Sambora si scusa per come se n’è andato (piantando in asso la band a poche ore dall’inizio di un tour di 80 date), ma non per averlo fatto, chiedendo perdono ai fan e agli altri membri del gruppo.


Niente riconciliazione, niente riavvicinamento. Il documentario, un po’ come i Bon Jovi, è plasmato dalla personalità del carismatico frontman e si concentra sul racconto di come l’addio di Sambora abbia portato il gruppo a integrare prima un chitarrista, poi il proprio stesso produttore come seconda chitarra, poi un percussionista e vocalist per dare una mano a Jon sul cantato. La famiglia disfunzionale dei Bon Jovi torna a funzionare, ma ha bisogno di tre nuovi ingressi per superare un addio pesantissimo.

Se “Thank You, Goodnight: The Bon Jovi Story” ha un difetto, è quello di non dare abbastanza seguito a una serie di affermazioni piuttosto taglienti di Sambora, che però sembrano cogliere nel segno parecchi argomenti assenti dal documentario. Sambora per esempio dice che le proprie dipendenze e l’incessante programmazione dei tour lo hanno tenuto lontano dalla figlia per gran parte della sua infanzia e adolescenza. Dorothea Bonjovi non racconta mai come il suo rapporto con Jon sia sopravvissuto a quegli anni d’incessanti tour. Il figlio Matthew diventato tour manager non fa mai un commento verso Jon nei panni di padre, limitandosi a lodarlo come artista.

In auto con il Boss: Bon Jovi racconta la sua terza età
Ciò che rende speciale “Thank You, Goodnight: The Bon Jovi Story” è invece quello che Jon non riesce a nascondere perché succede mentre si gira. Con il tempo sembra quasi sciogliersi, concedersi il racconto delle sue debolezze, passate e presenti. Un racconto indulgente e auto-assolutorio, ma non per questo meno forte. Come quando si ritrova a tirare fuori dai guai il manager del gruppo accusato di possesso di marjuana.


Come quando la band finisce per esibirsi di fronte “al nemico” oltre la Cortina di Ferro dove il rock è illegale. Come quando la lotta studentesca messicana mette a rischio la chiusura del tour e Jon propone di fare due concerti in un singolo giorno per calmare fan e manifestanti, arrivando a fine serata con i margarita sul palco, l’alcol nel corpo, i compagni sbronzi e irritati, ma sempre sul pezzo. Come a dire: ci negano la professionalità, ma abbiamo superato anche questo.

Bon Jovi si scioglie nel racconto indulgente sì, ma comunque interessante della sua terza età. L’avvicinamento alla politica, le cause sociali, i lunghi giri in macchina con l’amico Bruce. Solo loro, niente cellulari, niente radio, che guidano per 160 chilometri, confrontando le loro esperienze di vita così simili, come uomini, come americani, come leggende della musica.

Non deve essere facile lavorare alla corte di Bon Jovi, si capisce chiaramente. Ambizioso, carismatico, maniaco del controllo, ferocemente leale, stacanovista. Non lo è nemmeno per lui, schiavo dei suoi standard rigidi e severi, che ancora non sa se e quando tornerà in tour, se riuscirà a cantare per celebrare i 40 anni di una band che ha guidato con mano ferma per quattro decenni. Per fortuna sua e nostra Chopra lo filma quando le crepe della sua persona pubblica si fanno più profonde, regalandoci il ritratto di un'ambizione che si ritrova a confrontarsi con i limiti invalicabili della mortalità. Ci ha regalato e concesso così tanto di sé stesso, in queste quattro puntate, che si è tentati di credergli quando dice che “non c'è vergogna a invecchiare con grazia”.

“Thank You, Goodnight: The Bon Jovi Story” è disponibile in streaming dal 26 aprile 2024 su Disney+ in Italia.