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Vasco Rossi, il 1982 e "Vado al massimo"

Vasco Rossi, il 1982 e "Vado al massimo"
42 anni fa il rocker emiliano pubblicava il suo quinto album


"Vado al massimo" è il quinto album di Vasco Rossi. Raggiunse i negozi di dischi il 13 aprile 1982 ed è il disco che precede "Bollicine" che nel 1983 consegnerà al rocker di Zocca la definitiva affermazione che resiste ancora oggi, più che mai. Ricordiamo l'album proponendo la recensione da noi pubblicata due anni orsono in occasione della special edition uscita per celebrarne i 40 anni.


Difficile scrivere qualcosa su “Vado al massimo” che non sia stato già scritto e detto in questi quarant’anni trascorsi dall’uscita dell’album. Difficile anche spiegare cosa rappresentò il quinto album in studio di Vasco Rossi, per la musica pop-rock italiana dell’epoca, a distanza di quattro decenni. Forse non fu davvero quello “spartiacque” di cui parla il comunicato stampa diffuso in occasione dell’uscita della speciale riedizione rimasterizzata del disco: c’erano cose più interessanti e innovative nei due ellepì precedenti, “Colpa d’Alfredo” e “Siamo solo noi”, ampiamente ricordate e celebrate in questi anni. Però “Vado al massimo” fu un disco cruciale, per la carriera del rocker di Zocca: il perfetto anello di congiunzione tra il Vasco degli esordi, quello conosciuto per lo più a livello regionale, in Emilia, un po’ in Lombardia e un po’ in Piemonte, come avrebbe riconosciuto lui, e quello del grande successo nazionalpopolare e mainstream di “Vita spericolata”, che sarebbe arrivata di lì a poco.


“Un ebete piuttosto bruttino, malfermo sulle gambe, con gli occhiali fumé dello zombie, dell’alcolizzato, del drogato ‘fatto’”: così Vasco Rossi appariva agli occhi della critica qualche mese prima della partecipazione al Festival di Sanremo del 1982 con il brano che avrebbe dato il titolo a questo disco.


Le parole, feroci, sono del giornalista Nantas Salvalaggio, che vent’anni prima aveva fondato “Panorama”. Vasco gli risponderà per le rime proprio sul palco dell’Ariston, invitato dall’allora direttore artistico della kermesse, l’illuminato Gianni Ravera, che si rese conto di quanto quel Vasco da Zocca fosse un personaggio nuovo, di estrema rottura con il passato e così dichiarò ufficialmente di volerlo in gara tra i partecipanti al Festival. Il dissing è da rapper ante litteram: “Meglio rischiare che diventare / come quel tale, quel tale / che scrive sul giornale”, sorride Vasco, sbeffeggiando con i suoi versi Salvalaggio, pur senza mai citarlo. Fu, quella, la partecipazione dello storico incidente del microfono: “Prima dell’ultimo ritornello, sulla pausa di silenzio che precede il finale, me ne stavo andando con il microfono in tasca per darlo a Christian, il cantante successivo. Invece il filo era troppo corto e il microfono è volato via – avrebbe ricordato Rossi – c’è una cosa che avevo imparato, con la lunga gavetta sui palcoscenici: se sul palco fai cadere qualcosa e torni indietro a raccoglierla, per uno che è lì e ti guarda sei un deficiente. Se invece fai cadere qualcosa, ma non ti giri, beh, allora sei una rockstar. Quelli sono gli attimi che possono segnare una carriera intera”.


Meglio rischiare, cantava Vasco.


Che in “Vado al massimo”, l’album, provò a superare i confini che fino ad allora lo avevano caratterizzato solo come cantante di nicchia. Non solo geografici, ma anche e soprattutto musicali. La canzone che dava al titolo al disco era un reggae con un ritornello rock: con la stessa formula Loredana Bertè tre anni prima aveva sbancato le classifiche con “E la luna bussò”, vantandosi di aver importato per prima in Italia il genere che aveva ascoltato durante un viaggio in Giamaica da Bob Marley, ancora abbastanza sconosciuto ma prossimo a diventare una star. “Canzone” è una ballatona strappalacrime, che ancora oggi commuove i fan durante i concerti, frutto del sodalizio con il chitarrista Maurizio Solieri: “Pensavo a mio padre, mentre la scrivevo. Era morto da poco e nell’aria c’era ancora il suo odore. Poi il discorso lo avevo dirottato sul ricordo di una donna, non volendo parlare così pubblicamente di mio padre. Ma la profondità e l’intensità dell’emozione veniva da lì”, l’esegesi vaschiana.


“Splendida giornata”, che sancisce l’inizio della collaborazione con Tullio Ferro, dalla quale nasceranno la stessa “Vita spericolata” e negli anni successivi anche “Brava Giulia”, “Liberi liberi”, “Stupendo”, “Delusa”, “Vivere”, “Gli angeli”, “Sally”, fino a “Siamo soli”, “Stupido hotel” e “Il mondo che vorrei”, è un pezzo pop irriverente e scanzonato, con sonorità quasi italo disco e versi destinati a diventare d’uso comune: “Una splendida giornata / straviziata, stravissuta, senza tregua”. Una ballata particolarmente intensa è anche “Ogni volta”, destinata a diventare una delle più amate dal popolo del Blasco. Più malinconica è “La noia”, cullata dalle chitarre acustiche, che chiude emblematicamente il disco, a sottolineare quella voglia di evasione dal mondo della provincia nel quale Vasco era rimasto fino ad allora confinato: “Soffrirò di nostalgia / ma devo uscire fuori da qui”.