MUSICA




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Kurt Cobain, 1994-2024: oggi lo speciale di Rockol

Kurt Cobain, 1994-2024: oggi lo speciale di Rockol
Trent'anni fa moriva il leader dei Nirvana, lo ricordiamo così

Sono trascorsi dalla sua morte più anni, trenta, di quanti Kurt Cobain ne abbia vissuti, ventisette.

Comunque lo si voglia guardare, il grunge, probabilmente, è rimasto l'ultimo fenomeno in ordine temporale a poter essere considerato rilevante nella storia del rock. Una città, tanti gruppi e un sound che nel giro di qualche anno passò dai club underground ai vertici delle classifiche mondiali, incoronando - suo malgrado - quella che Douglas Coupland consacrò come "generazione X", i figli dei baby boomer ai quali i genitori consegnarono, a mo' di testimone, i dischi di Black Sabbath e Led Zeppelin e un mondo che non erano riusciti a cambiare, almeno non come avrebbero voluto loro.


Se ancora oggi parliamo di band come .Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden e Alice In Chains, è perché - malgrado tutto - il solco tracciato oltre tre decenni fa nell'estremo nord della West Coast statunitense è ancora seguito da generazioni di musicisti e appassionati, che pur non avendo vissuto in diretta la piccola grande rivoluzione che scoppiò all'ombra dello Space Needle continuano ad apprezzarne la capacità di rompere con il passato e la vitalità espressiva. In occasione dell'anniversario della scomparsa di Kurt Cobain, considerato dai più - ma a torto – l'alfiere del grunge, abbiamo voluto gettare uno sguardo sui protagonisti di quel tempo ancora attivi oggi.


Da quinto (o sesto: al proposito nemmeno Novoselic se la sentirebbe di sbilanciarsi) batterista dei Nirvana a deus ex machina del rock ai tempi dei social network: Dave Grohl non è più l'outsider che menava sui tamburi per dare un ritmo allo spleen della generazione X, ma un esponente di spicco del mainstream rock mondiale. Sono passati gli anni, è cresciuto il conto in banca, ma la carica irriverente o l'onestà, seppure in un contesto musicale meno pregnante che in passato, sono rimaste più o meno le stesse.


Figura estremamente controversa perché sostanzialmente divisa tra due ruoli pubblici - quello di leader delle Hole e quello, decisamente più scomodo, di moglie di Kurt Cobain - Courtney Love, al netto delle qualità artistiche, è stata una delle personalità più in vista del periodo grunge. Sfrontata performer, Yoko Ono dei Nirvana, attrice di talento, personalità disfunzionale e altro: di lei hanno detto e scritto di tutto. Di certo, una reduce e una testimone oculare che se un domani, in stato di lucidità e senza litigare coi propri collaboratori, decidesse di vuotare il sacco, varrebbe sicuramente la pena ascoltare.



Anche loro figli della rivoluzione grunge, trenta e passa anni dopo i Pearl Jam si ritrovano ad essere una delle rockband più apprezzate a livello mondiale: tenendo duro e reggendo agli urti e agli anni, Eddie Vedder e soci sono stati i più bravi a traghettare i ragazzi della generazione X dalle camicie di flanella e dai "flip the bird" a favore di telecamera all'incanutito pantheon del classic rock. Perché, piaccia o meno, quella che era la musica dei figli oggi è la musica dei genitori, con tutti gli annessi e connessi.


Nel 2010 si erano ritrovati, a sorpresa, riprendendo il discorso interrotto nel 1997 e riaccendendo le speranze dei fan con un disco di inediti, "King Animal" (leggi qui la recensione), e diversi tour in giro per il mondo. Quella dei Soundgarden di Chris Cornell pareva la favola bella di una band capace di rinascere dalle proprie ceneri e di indossare le cicatrici lasciate dal tempo come fossero medaglie, tornando sulle scene due decenni dopo l'esplosione con la stessa grinta e un'immutata integrità: almeno fino a quel maledetto 18 maggio del 2017, che ci portò via uno dei più grandi frontman della sua generazione.



Gli Alice in Chains attivi lo sono ancora, ma pagando un prezzo altissimo: Layne Staley, morto nel 2002 a 34 anni, è uno dei tanti martiri che il grunge ha visto cadere. Jerry Cantrell non ha perso il tocco, e il nuovo frontman William DuVall non è senz'altro l'ultimo arrivato, è indubbio che quella scritta negli ultimi anni sia tutta un'altra storia.


Ancora più tribolata di quella degli Alice in Chains, se possibile, è la storia degli Stone Temple Pilots: dopo "Core", uno dei dischi simbolo del grunge, la band - una delle poche esterne all'area di Seattle - si scioglie nel 2002. Scott Weiland passerà nei Velvet Revolver, per poi riattivare la storica sigla insieme ai fratelli DeLeo nel 2008. Poi ancora liti, polemiche, recriminazioni: il frontman riuscirà a farsi odiare da tutti - ex compagni di gruppo (che si rivolgeranno al frontman dei LinkinPark Chester Bennington, che ci lascerà tragicamente anche lui il 20 luglio del 2017) per una collaborazione a tempo determinato) e fan, in primis - per poi tornare in attività da solista coi


Wildabouts. Ma durerà poco: in un parcheggio di Bloomington, Minnesota, il 3 dicembre del 2015 si chiude nel peggiore dei modi la storia di una delle voci più amate dell'alt rock USA anni Novanta.


Buzz Osborne è l'autentico outsider del grunge: amato da Kurt Cobain, che artisticamente lo considerava un padre putativo, King Buzzo e i suoi Melvins nel filone della Seattle anni Novanta non ci si sono mai trovati a meraviglia, ma fu proprio l'esplosione dei Nirvana a farli arrivare, dopo vent'anni di militanza indefessa, a un contratto con la Atlantic, nel '93. Passata la tempesta, Osborne e Dale Crover - con assetti e line up diverse - sono ancora dove li avevamo lasciati, tra studio e palchi, orgogliosamente appannaggio di un manipolo di competenti e appassionati. Leggi alla voce "il Seattle sound che non vedrete mai sulle copertine dei grandi magazine".


Nati come divertissement di elementi di band già affermate - durato appena due anni, tra il '90 e il '92 - i Temple of the Dog si sono riscoperti nel 2016 un supergruppo capace di polverizzare i biglietti per un intero tour nel giro - letteralmente - di pochi secondi: la loro è la perfetta parabola di quello che è stato il grunge e di quanto ancora significhi agli occhi - pardon, alle orecchie - del pubblico. Ovvero, come passare da brillanti promesse a venerati maestri saltando a pié pari la ben nota - e poco lusinghiera - fase intermedia.



Altro venerato maestro è Mark Lanegan, che nel curriculum ha tre quarti della storia del grunge: dagli Screaming Trees passando per i Mad Season fino a giungere una più che apprezzata carriera solista, il tenebroso frontman e cantautore di Ellensburg, scomparso il 22 febbraio 2022 - i cui progetti collaterali non si contano - rappresenta il legame tra la Seattle dei primi anni Novanta e la scena stoner californiana degli anni 2000, passando con le sue collaborazioni il testimone ai Queens of the Stone Age.


Quella dei Mudhoney è la classica storia della band di culto: apprezzatissimi dai colleghi, trattati coi guanti di velluto dalla stampa specializzata, il loro nome lo si leggeva spessissimo nelle interviste ma praticamente mai in classifica. Mark Arm e compagni hanno influenzato generazioni di musicisti, facendo evolvere il proprio sound alla faccia di chi li voleva simulacri di una scena che - come tutte, del resto - si sarebbe esaurita di lì a qualche anno, ma che avrebbe continuato a ispirare schiere di ragazzini con la chitarra, compresi quelli che ai tempi del loro primo EP "Superfuzz Bigmuff" non erano ancora nati. Inflazionatisi pochissimo - specie sulla sponta orientale dell'Atlantico - rivederli oggi è ancora un piacere.