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Francesco De Gregori parla dei conti non risolti con l’amore

Francesco De Gregori parla dei conti non risolti con l’amore
Nel 2006 "Calypsos" raggiunse la prima posizione nella classifica di vendita


Di Redazione

Si era verso la fine di gennaio del 2006 quando Francesco De Gregori - fresco di incoronazione per il suo album del 1982, “Titanic”, come più bel disco degli ultimi 30 anni secondo un sondaggio di Repubblica - annunciò l'imminente uscita di un nuovo album. Quel disco sarebbe uscito il 17 febbraio 2006 e si sarebbe chiamato “Calypsos” “L’ho scritto in un mese.


Sono meravigliato io stesso, ma si vede che ne avevo bisogno, l’arte è una medicina contro i mali della vita. Mi sto scoprendo una tenerezza tardiva per i ferri del mestiere, addirittura un amore senile per la sala di registrazione, uno studio come quello di una volta, sala grande, ampio spazio per l’ingombro fisico degli strumenti, nessuna fredda miniaturizzazione tecnologica. Mi hanno chiesto com’è il disco? Ho risposto: intimo. Parla dei conti non risolti con l’amore, che rimane un momento di grande indecifrabilità. Parla dei rapimenti d’amore. Il riferimento è più alla ninfa che fece innamorare Ulisse che al ballo, anche se una canzone è dedicata proprio al ballo. E un’altra, ‘Cardiologia’, alla scienza del cuore, ammesso che sia una scienza, quella…”. Per celebrarne l'anniversario ecco a voi la recensione di .“Calypsos” che scrisse per noi Alfredo Marziano.

Qualcuno, per farsi notare e non sparire nell’indifferenza generale, s’è inventato i dischi e i concerti “evento”, effetti speciali, parate di ospiti e sparate mediatiche utili, quando tutto va bene, a strappare titoli ai giornali e a scuotere il pubblico dalla sua, spesso giustificata, apatia. De Gregori, da buon bastian contrario, fa esattamente l’opposto e si è rimesso ostinatamente a concepire il suo mestiere come si faceva una volta. Va a suonare con la sua band (sempre la stessa) dove lo chiamano, butta fuori un disco ogni volta che ha in mano abbastanza materiale da giustificare l’affitto di una sala di registrazione. Profilo basso, insomma, come antidoto alla schizofrenia dello show business, “progettualità” e strategia al grado zero: posso confessare che basta questo a rendermelo simpatico, a farmi schierare immediatamente dalla sua parte?


Detto ciò, bisogna sapere a cosa si va incontro. “Calypsos” sono semplicemente le sue “9 canzoni nuove”, come sottolinea onestamente il sottotitolo di un disco che arriva a meno di un anno da “Pezzi” nella veste più dimessa che sia possibile immaginare: copertina “povera” e iper minimale con nome dell’artista e titolo dell’album riprodotti su sfondo bianco (l’unico vezzo è quel lettering che, come qualcun altro ha già acutamente sottolineato, rimanda al tardo Battisti), suono essenzialmente analogico, durata inferiore ai 40 minuti come ai bei tempi del vinile nostalgicamente rievocato dall’etichetta stampata sul cd.



Circola aria antica e familiare, insomma. Con la cover di “A chi”, incisa per la raccolta “Mix” di fine 2003, Francesco aveva confessato un debole insospettato per gli anni e le musiche della sua giovinezza. E anche stavolta, tenendo a freno la lingua rock e spigolosa che caratterizzava tanta parte di “Pezzi”, torna in un paio d’occasioni a rivisitare l’ingenua freschezza dei Sessanta: succede nella deliziosa “La linea della vita”, musica leggera ma pensante con tanto di coretti e vellutata pedal steel che farebbe la sua figura anche in un juke box, ce ne fossero ancora; e in “L’amore comunque”, una specie di lento da mattonella non fosse per il testo che Rita Pavone o Nico Fidenco non avrebbero mai potuto cantare. Sono canzoni d’amore, per la maggior parte, come suggeriscono i richiami nei titoli alle malattie del cuore e alla figura classica della ninfa Calypso, mentre la “politica” amara e disorientata del disco precedente se ne va lei pure in sof*****.



La band che lo accompagna è quella solita, con Arianti, Svampa, Bardi, Giovenchi, Valle e Guido Guglielminetti (anche produttore) a ricamare con perizia e misura, mentre il titolare suona pochissimo e pensa a scrivere e a cantare: ci sono ancora tante e belle chitarre, scrupolosamente annotate per marca e per modello nei crediti brano per brano, e un assolo alla Mark Knopfler (in un pezzo, “Mayday”, che vive soprattutto di quello).


Ma ci sono anche ballate classiche alla De Gregori per voce e pianoforte come “Cardiologia”, e calypso leggeri (rieccolo il titolo…) come “L’angelo” in duetto con Lucy Campeti, una di quelle parentesi spensierate a cui il cantautore ci ha abituati almeno dai tempi preistorici di “Banana republic”.


E’ un album, questo, che preferisce le rotondità agli spigoli, una certa malinconia composta allo sdegno civile, l’universalità dei sentimenti all’attualità dello scontro ideologico. E non è che siano tutte dei capolavori, le 9 canzoni nuove: la struttura rock della citata “Mayday” è didascalica, e non lascia traccia la conclusiva “Tre stelle”, un evanescente pop soul e un clarinetto swing a far da sfondo a metafore fin troppo prevedibili. Però è anche il disco di un Autore, e ogni volta salta fuori una linea vincente (“Che dell’amore non si butta niente”, canta Francesco con la sua bella voce piana in “Cardiologia”), uno squarcio poetico, un lampo da brivido.


Per esempio quella fotografia cruda, soleggiata e sonnacchiosa che è “Per le strade di Roma”, un omaggio lucido, agre e affettuoso a una città dove “sono arrivati i Turchi all’Argentina” e i ragazzi “sognano di fare il politico o l’attore/E guardano il presente senza stupore”. O quel piccolo incanto per gruppo rock e quartetto d’archi che è “La casa”, istruzioni di bricolage domestico e semplici proponimenti che valgono anche per la musica pop: che può diventare un rifugio accogliente per chi ascolta, con quattro porte ai punti cardinali “che ci possa entrare il cane/quando sente i temporali”. Anche a questo servono le canzoni, e il De Gregori “estroverso” e generoso degli ultimi anni sembra esserne diventato sempre più consapevole.