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Franco Migliacci e le sue canzoni. L'ultima intervista

Franco Migliacci e le sue canzoni. L'ultima intervista
Il Festival e la città di Sanremo renderanno il doveroso omaggio all'autore scomparso da pochi mesi?


Di Simona Orlando
Chissà se la Rai settantenne mostrerà cedimenti di memoria in occasione del festival alle porte, o se si ricorderà di omaggiare uno dei nostri più grandi autori - scomparso lo scorso settembre, a 92 anni – scopritore di Renato Zero e Gianni Morandi, al quale consegnò i suoi brani più importanti, da quelli adolescenziali, “I ragazzi dello shake”, “Se perdo anche te”, “Un mondo d’amore”, “Non son degno di te”, “Scende la pioggia”, fino alla risalita post-crisi con “Uno su mille”, in una specie di romanzo di formazione. Quel Franco Migliacci che amava starsene in disparte, segnando intanto la carriera di molti artisti, e gli ascolti dei programmi che li ospitavano. Basterebbe un brano per tutti, “Nel blu dipinto di blu”, il più famoso al mondo, oltre 20 milioni di copie vendute (almeno dieci volte di più, si dice, contando compilation, colonne sonore e cover). Ma limitarsi a “Volare” – come è nota a tutti la canzone - sarebbe fargli un torto. Di seguito, ci sono almeno trenta buoni motivi (quante sono le canzoni in gara) per citare non sbrigativamente Migliacci all’Ariston. Impressionante la sua produzione, per varietà e quantità. E ancor di più la leggerezza, la giocosità, con cui me la raccontò in più incontri, e nell’ultima intervista che ha rilasciato. Arrivò accompagnato da sua moglie Gloria e suo figlio Ernesto. Appuntamento in un bar romano. Noi al piano di sopra, una festa privata al piano di sotto, con invitati tra i 20 ai 50 anni e una playlist che simulava il jukebox anni ’60- ’70. La memoria talvolta vacillava, ma i suoi testi li ricordava parola per parola.



Nel blu dipinto di blu (1958): «Fu il primo testo di canzone che scrissi in vita mia, su consiglio insistente di Modugno. Ero scappato da Firenze, dove mio padre, maresciallo di Finanza, mi voleva ingegnere perché, dopo la guerra, bisognava ricostruire l’Italia. Io invece disegnavo le caricature dei professori e le vendevo ai compagni. Dipingevo occhi e bocche per un bambolaio, facevo le case di sughero per i presepi e qualche fumetto per “Il Pioniere” di Gianni Rodari, per le riviste “Lupettino” e “Bambola”. A Roma finii in una pensione a Via Vittoria dove abitavano tutti gli attori del Centro Sperimentale. Sulla porta c’era scritto «Stanza a ingresso libero», per capire l’atmosfera. Uno di loro, trovandomi spiritoso, mi mandò al provino di “Carica eroica” (1952), sugli italiani in Russia. Nel film io ero un attendente toscano, e mi toccò stare accanto all’attendente pugliese. Che era Domenico Modugno. Pareva serioso, invece si rivelò un tipo fragoroso, coinvolgente. Anche lui scappato da suo padre, capo della guardia del paese. Ci trovammo subito. Mi convinse a scrivere. Io volevo fare il disegnatore. Stavamo sempre insieme. Poi una domenica di giugno mi diede buca per andarsene al mare, e mi fece infuriare. Volevo mandare il mondo al diavolo. In stanza, sentivo “una musica dolce che suonava soltanto per me”, arrivava dal Conservatorio di fronte (Santa Cecilia), e mi caddero gli occhi sulla stampa di Chagall “Le Coq Rouge”, tutto sospeso nel blu. Lo sognai. Al risveglio scrissi. Sa, le canzoni stanno per aria ma scendono giù quando vogliono.

Mimmo lesse quel foglietto e intuì subito la potenza del testo. Mancava ancora la musica, però. Inizialmente il ritornello era “Volavo”, non “Volare”. Conservo una lacca in cui Modugno la canta così (quanto sarebbe prezioso recuperarla e farcela ascoltare? ndr). Facemmo qualche aggiustamento, piccole cose. Ad esempio, è di Mimmo “blu come un cielo trapunto di stelle”. A me “trapunto” non piaceva, mi ricordava la trapunta della nonna. Lui mi rispose: “Ma non senti come suona bene?”. Era già accaduto con “Vecchio frack”. L’aveva scritta lui ma gli feci notare che per “candido gilet” intendeva forse “lo sparato bianco”. Mi sembrava un termine più corretto. E Mimmo: “Ma ‘sparato’ suona male!”. Mi insegnò che la ragione, in musica, non ha ragione. Deve suonare bene.

Comunque, nessuno voleva interpretare “Nel blu dipinto di blu” al Sanremo del 1958. Rifiutarono tutti. A quel punto, se ne incaricò Mimmo. Ed era già una cosa strana, perché all’epoca i cantanti non erano anche autori. Provammo l’esibizione a casa sua. Era un attore, ci provava gusto ad esagerare, quasi ballava, gli consigliai di non strafare. Fosse stato per lui, si sarebbe buttato in volo fra la gente. Il brano era fuori da ogni schema, non parlava d’amore per una donna, non aveva rime facili. Non sapevamo quale reazione aspettarci. A Sanremo io e sua moglie Franca eravamo in sala. Vedevamo la platea che batteva il piede sullo swing, e ci siamo dati così tante gomitate che mi si è consumato lo smoking. Un problema per me: lo avevo preso a credito, aveva le tasche cucite. A un certo punto, Mimmo aprì le braccia come fossero ali, e successe il finimondo». Un gesto entrato nell’immaginario collettivo. Di sollievo, ottimismo, speranza per un’Italia che ripartiva dopo la guerra. Il testo che oggi ci suona classico, all’epoca fu rivoluzionario. Né provinciale, né sentimentale, ma visionario. Un decollo dell’anima: «Il cielo tornava ad essere blu, spazio infinito, pieno di possibilità, non la traiettoria dei bombardieri. Durante la guerra, il cielo ci faceva paura». Poi quel finale, senza l’acuto del belcanto a estorcere gli applausi. «La vittoria fu una gioia immensa. Il giorno dopo corsi a Firenze perché a mio padre maresciallo era venuto un attacco di febbre. Dal letto mi disse: «Ma non potevi scrivere “L’edera” per Nilla Pizzi? È tanto bella!».

“Nel blu dipinto di blu” diede origine alla nostra canzone d’autore. Da lì in poi, tutto cambiò: «Fino ad allora si scrivevano cose timide. Il coraggio è venuto fuori dopo, dando un po’ fastidio agli altri. Si cominciò a dare fiducia agli artisti che osavano di più».



Io/Ask me di Elvis Presley (1958): «”Nel blu dipinto di blu” vinse due Grammy e Mimmo mi disse: “Vuoi un milione o venire in America con me?”. Io, sebbene squattrinato, non ci pensai un attimo. Lui mi portò in America, e mi diede pure un milione. In verità, ci rendemmo davvero conto di quanto la canzone si fosse diffusa quando una volta, di scalo in Pakistan, la sentimmo cantare da un pescatore di lì. Non ci credevamo». Tornando agli Stati Uniti, i due girarono tante città. In uno studio della MCA, fu proposto loro di incontrare Elvis Presley, e ovviamente accettarono. Presley li accolse cantando “Volaaare”, Modugno rispose “Oh Oh” e si abbracciarono. Nel breve incontro, Elvis studiò a fondo Mister Volare, i suoi modi teatrali e magnetici. Nel 1964, la sorpresa: «Scoprimmo che Elvis aveva ascoltato la nostra canzone "Io" e aveva deciso di farne una sua versione, intitolata “Ask Me”».



Tintarella di luna (1959): «Scrissi ispirandomi a una ragazza che all’epoca frequentavo, e si lamentava perché non la portavo mai al mare. Tutte le sue amiche erano abbronzate e lei no. Le risposi che, in compenso, poteva dire di avere la tintarella di luna. Il brano volevo assegnarlo a Modugno, appena rientrati dagli Stati Uniti: “Dai, facciamo un bel twist!”. E lui: “Mica vogliamo fare gli americani!”. Diedi il brano a Mina, che era proprio agli inizi. Molto simpatica, esuberante, si capiva che aveva una marcia in più, infatti andò benissimo e “Tintarella di luna” divenne il titolo del suo primo album. Oggi la conoscono anche in Giappone. A quel punto Modugno mi chiamò: “Ma perché non l’hai data a me?”. Fu un brano importante, perché mi fece capire che esistevo come autore anche indipendentemente da lui. E comunque un twist insieme lo facemmo, s’intitolava “Selene” (1960). In Russia è nota come “Gagarin Twist”, in onore dell’astronauta».



Libero (1960): «Secondo posto al Festival di Sanremo, ma la canzone diede scandalo. I puritani lessero il verso ‘come rondine che non vuol tornare al nido’ come un invito ad abbandonare la famiglia, il tetto coniugale. Per loro era un inno libertino, mentre io e Modugno parlavamo solo della nostra libertà mentale. Ecco, con Mimmo sperimentai una libertà totale. Facevamo ciò che volevamo, quando volevamo. Litigavamo spesso. Lui aveva un temperamento focoso e testardo. Io, più testardo ancora. Ma come ci accendevamo, così ci spegnevamo. Se una sua proposta non mi conquistava, riprovava e riprovava. Alla fine, non facevo che comunicargli l’entusiasmo che lui dava a me».



Addio…Addio (1962): «Io e Modugno vincemmo di nuovo il Festival di Sanremo. Un’emozione grande, anche se a me non piaceva molto il brano. Mi sembrava più tradizionale, un passo indietro rispetto a “Volare”, che aveva cambiato il mercato discografico. Volevo continuare a guardare avanti. Senza discussioni, interrompemmo il sodalizio solo artistico, rimanendo grandi amici».



Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte (1962): «In America avevo scoperto che il mercato lo muovevano i “teenagers” ed esisteva la figura del produttore discografico, sconosciuta qui da noi. Al ritorno in Italia decisi che volevo fare quello. Chiesi addirittura ad Ennio Melis della RCA di inserire la dicitura sul disco. Puntai su un giovanissimo Gianni Morandi».



Meglio stasera in La pantera rosa (1963) «In America conobbi anche il grande compositore Henry Mancini. Scrissi il testo di “Meglio stasera”, che ha un ruolo importante nel film “La Pantera rosa”». Il testo nella celebre pellicola resta invariato, cantato in italiano da Fran Jeffries, accanto all’attore David Niven. Lo canticchia lo stesso protagonista Peter Sellers. Parte del testo di Migliacci è mantenuto anche nella versione inglese (“It Had Better Be Tonight”) di Sarah Vaughan e Michael Bublé.



In ginocchio da te (1964): «Ennio Melis non era affatto d’accordo con questo brano. Voleva che continuassi a scrivere canzoni spensierate per Morandi, che intanto era cresciuto, e io intendevo raccontare la sua prima cotta. Melis, pur contrario, era uno che ti diceva: «Vai avanti, batti pure la testa». Ci consentì di pubblicare solo per provare che non avrebbe funzionato. Vendemmo un milione mezzo di copie! Il barista della RCA mi diceva: «A Frà, li vedi quei camion che escono? So’ tutti dischi tuoi».

Da quel giorno, ogni volta che incontravo Melis, gli mostravo il ginocchio. Facevo capolino nel suo ufficio anche per un attimo, mentre era in riunione, senza dire nulla. Mi toccavo il ginocchio e sparivo. Feci infuriare anche Ennio Morricone, richiamando a suonare la sua orchestra per tre volte su “In ginocchio da te”. La seconda, lui diede un pugno sul muro e bucò il cartongesso. Aveva creato un arrangiamento secondo me troppo pacato. Lo volevo più sanguigno, pucciniano. La terza volta, Morricone disse: «Oh, più melodrammatico di così non esiste».



La fisarmonica (1966): «Il testo mi venne in mente durante una zingarata con Modugno. Mi passava a prendere e partivamo senza meta. Una notte arrivammo in Romagna, e in lontananza sentii il suono di una fisarmonica, strumento che avevo sempre odiato, così asmatico, e invece quella notte era talmente magico che mi conquistò. La proposi per un brano a Mimmo, che si incaponì: «Non “La fisarmonica”, facciamo “Il mandolino”». La passai a Morandi».



C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones (1966): «L’idea mi nacque a Piazza del Popolo. Ero seduto in un bar romano e sul giornale lessi che negli Stati Uniti i ragazzi bruciavano la cartolina di richiamo per la guerra in Vietnam. Volevamo la pace. Non riuscivo nemmeno a contrapporre i Beatles ai Rolling Stones, mi piacevano entrambi. Beh, per il testo successe un putiferio. Quel ‘tattatattattà’ che simulava la mitragliatrice, le parole Vietnam e vietcong…non si potevano dire. Ci fu un’interrogazione parlamentare, ci consideravano nemici degli Stati Uniti perché criticavamo la loro guerra. Poi Joan Baez la inserì nei suoi concerti. La cosa divertente è che, dieci anni dopo, mi arrivò una lettera dall’ambasciata americana. Tremai pensando che si trattasse ancora di quella faccenda, invece mi si chiedeva di garantire per Lucio Battisti, che stava uscendo con il disco sul mercato statunitense. Risposi con una lettera in cui certificavo che era un professionista e potevano accoglierlo senza problemi. Che ridere!».



La bambola (1968): «Altro brano che nessuno voleva. Stavo prendendo un caffè a Piazza Navona e sentii una donna, al tavolo accanto, che invitava le amiche a non essere più le bambole degli uomini. Scrissi forse la prima canzone femminista, ma da molti fu interpretata al contrario. La rimbalzarono tutti. Ero disposto anche a volgerla al maschile, per Little Tony, ma mantenendo il senso originale. Alla fine accettò Patty Pravo, forse per sfinimento. Per lei scrissi anche “Tutt’al più” (1970), che fu un successo dopo “Canzonissim”a»



Ma che freddo fa - Il cuore è uno zingaro – Che sarà: Nada debuttò a 15 anni con “Ma che freddo fa” al Festival di Sanremo 1969. Nel 1971 tornò sullo stesso palco e vinse con “Il cuore è uno zingaro”: «Inizialmente avevo proposto il brano a Morandi, che poi non andò né con quello né con “Che sarà”, piazzatasi seconda nella stessa edizione. Anche “Che sarà” la pensavo perfetta per Gianni. Avevo scritto il testo pensando a Cortona. Lui era nato a Monghidoro, chi meglio poteva parlare di “paese mio che stai sulla collina?” Alla fine lo interpretarono i Ricchi e Poveri e José Feliciano, rimanendo nella storia».



No! Mamma, no! (1973) e Invenzioni (1974) di Renato Zero: «Mi dissero che ero totalmente pazzo a produrre uno come Renato, ma io ero sbalordito dalla sua originalità, dalla sua personalità stravagante e gentile. Aveva le idee molto chiare. Veniva spessissimo a cena da me, già con il suo codazzo. Arrivava a casa con ballerini e zerofolli. Gli chiedevo: «Ma questi chi sono?» e lui: «A Frà, e io che ne so?».



Ancora (1981): «Appena Claudio Mattone la accennò al pianoforte, la mia testa stava già costruendo il testo. E quanto mi piaceva sentirlo da Eduardo de Crescenzo! Bellissima voce. Entrava in trance, ne usciva solo finita la canzone. La portò al Sanremo, non si posizionò benissimo ma crebbe nel tempo. Per lui scrissi anche il testo di un brano che amo molto, “Uomini semplici”. Sono grato a Marco Mengoni per averlo portato al suo primo provino di X Factor».



E va’… e va’ – Era il 1981 e Alberto Sordi si presentò al Festival di Sanremo, allungandosi in una premessa: “Si vuol fare l’Europa unita, e non c’è niente di meglio che essere tutti a braccetto e cantare un ritornello. Questa canzone è una piccola cosa, uno scherzo quasi, ma che ha il suo significato. Basta pensare che il ritornello finale ci conduce tutti, buoni e cattivi, verso un’unica meta. Gli autori Migliacci e Mattone hanno voluto proprio questo, invitando me a cantarla, e io ho accettato, per voi. La canzoncina è molto fine, molto delicata, non è in inglese, è in un italiano mio. Insomma v’aa canto come m’aa sento”. Migliacci ride ancora a ricordarlo: «Con Sordi avevo girato un film intitolato “L’arte di arrangiarsi” (1954). Poi un giorno, curiosamente, da toscano mi uscì il testo in romano. Pensai ad Albertone. Ci incontrammo in un ristorante. Mi aspettavo arrivasse con un macchinone, con l’autista, invece scese da una Cinquecento. Era molto umile. Accettò subito di cantare, temeva solo di non ricordare tutte le parole, che erano davvero tante. E come mi era successo per “Nel blu dipinto di blu”, che tutti conoscono come “Volare”, anche “E va’… e va’” divenne famosa con un titolo diverso, cioè “Te c’hanno mai mandato a quel paese?”. Che poi è la mia filosofia di vita».



No east, no west – Scialpi andò con questo brano a Sanremo nel 1986, Migliacci aveva già scritto per lui, compreso “Rocking Rolling”, e avrebbe continuato dopo, ad esempio con “Cigarettes and coffee”. Fu il suo produttore. Ha sempre avuto una passione per gli irregolari. Per dirla a modo suo, meglio il salmone che il baccalà: «Spesso mi parcheggiavo nei posti trafficati e restavo in macchina ad osservare la gente per ore. Mi ispirano le storie degli altri. A Scialpi un giorno dissi: «Intorno vedi qualcuno come te?», e lui: «Nessuno». Per me era un valore. Per non fargli fare su e giù da Parma, o avanti e indietro dall’hotel, lo invitai a vivere a casa mia. Ci restò un anno e mezzo».



Uomo allo specchio e Delfini: «Scrissi “Uomo allo specchio” per il figlio di Modugno, Massimo, che lo portò al Festival di Sanremo nel 1992. L’anno dopo, padre e figlio duettarono in “Delfini”, che è l’ultima incisione di Mimmo. L’ho scritta durante la vacanza insieme a Lampedusa, notando, con sorpresa, che Mimmo camminava male fuori dall’acqua, ma a nuoto non c’era maniera di stargli dietro. Il mare era il suo elemento. L’estate successiva morì, in quello stesso mare, lasciandomi di sasso. Ci siamo voluti davvero bene». L’altro amico fraterno era Sergio Endrigo, per il quale scrisse “Notte, lunga notte”.



Ho citato solo alcune canzoni di Migliacci, nemmeno tutte quelle che sono andate al Festival Sanremo, in gara, nella serata cover, o portate dagli ospiti. Tra le altre famose ci sono “Come te non c’è nessuno” (1962) e “Pel di carota” (1963) per Rita Pavone; “Una rotonda sul mare” (1964) per Fred Bongusto, «in realtà la rotonda era sul lago Trasimeno, dove andavo, e ballavano tutti tranne me»; “Credo” per Mia Martini, pezzo struggente di Mimì bocciato dalla commissione del Sanremo 1972; “T’appartengo” (1994) scritta con i figli Ernesto e Francesco e poi affidata ad Ambra.

Migliacci ha poi cresciuto generazioni di bambini, con le sigle dei cartoni animati. “Daltanious”, “Chobin”, “Carletto e i mostri”, “Il Grande Mazinga” (anche la voce-slogan è sua); “Heidi”: «Ovvero mia moglie (Gloria Wall, sposata nel 1966 e scomparsa da poco ndr), era lei che salutava le caprette, amava i monti. Al tempo abitava a Madonna di Campiglio». E poi “Lupin III”, la più bella: «La musica era di Franco Micalizzi e fu suonata dall’Orchestra Castellina-Pasi, gruppo di liscio, ma il risultato, fra parole e valzer, sembrò francese. Grazie alle canzoni dei cartoni animati, mi ricongiunsi alla passione per il disegno».

Questa è una caratteristica di Migliacci. Senza la sua vena fumettistica, forse non sarebbero nate “Tintarella di luna” e onomatopee tipo ‘tin tin tin’ (il suono dei raggi lunari), ‘ulla ulla là’ in “Pasqualino Marajà”, ‘ciunga ciunga ciù’ di “Andavo a cento all’ora”, il ballo “Plip”, “Pissi ***** bao bao” per Gianni Meccia, o proprio la copertina di “Nel blu dipinto di blu”, nella prima edizione affidata a Guido Crepax.

«La bellezza di una canzone conta, ma io preferisco le canzoni belle e divertenti» mi disse Migliacci «Ne ho tante da parte che non sono mai riuscito ad assegnare». Non si curava molto del fatto che la gente conoscesse gli interpreti dei brani, ma non lui che li aveva scritti: «A me non piace apparire. Però, certo, mi fa effetto ascoltare le mie canzoni. Ancora non mi abituo. Quando arrivano, mi colpiscono. Mio padre voleva che facessi l’ingegnere per ricostruire l’Italia, invece noi l’Italia l’abbiamo ricostruita con le canzoni».



Per uscire dal bar, fummo costretti ad attraversare la festa al piano di sotto. Gli invitati ci guardarono con fastidio per l’intrusione. Stavano finendo di ballare “Tintarella di luna”, iniziava “Ma che freddo fa”. Ecco, andrebbe segnata la differenza fra chi ignora e chi dimentica. Il festival della canzone italiana, confidiamo, non avrà amnesie verso chi ha contribuito a renderlo ciò che è. A New York, quartiere Little Italy, le parole di Migliacci sono diventate luci parlanti, con il testo di “Volare” sospeso sulle teste di chi percorre Mulberry Street. Sanremo ha dedicato le luminarie del corso a Toto Cutugno. A Franco Migliacci dovrebbe intitolare almeno un premio, o una strada. Magari lui ci manderebbe volentieri a quel paese. Ma alla memoria di questo, di Paese, farebbe un gran bene.