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Migliori album 2023. Le considerazioni di Stefano Pifferi

Migliori album 2023. Le considerazioni di Stefano Pifferi

STEFANO PIFFERI
30 DICEMBRE 2023

Un consuntivo sull'anno che si chiude tra perplessità e ipotesi di lettura
Mai come quest’anno mi sono trovato “disallineato” con le classifiche sia di SA che dei principali magazine o portali generalisti o settoriali, italiani come stranieri, su cui qui a SA siamo soliti buttare un po’ di luce per fornire facilmente uno sguardo su ciò che succede altrove (The Guardian, Boomkat, CoS, Pitchfork, Wire, Quietus, ecc.). Nessuno snobismo, sia chiaro; nessuna autoreferenzialità estrema (fatta salva quella ovvia di una classifica “personale”, quindi per forza di cose rapportata al gusto di chi scrive) o ricerca di una originalità posticcia, quanto una semplice constatazione che, infrangendo una tra le regole non scritte di più fondamentale importanza per ogni tipo di analisi, dal personale vorrei far arrivare all’universale. Pur vicino per sensibilità, affinità, attitudine più a certe testate che ad altre – Wire, Boomkat, Blow Up, per rimanere a casa nostra – a incrociare i miei ascolti con quelli delle suddette riviste e webzine e, soprattutto, incrociandole tra di loro (alla buona, nessuna analisi statistica da manuale qui, ovviamente), mi sono reso conto di come i titoli in comune siano davvero pochi. Sia chiaro, tutti titoli di qualità quelli che occupano le playlist di fine anno di riviste e portali, perché di musica bella ne esce in quantità e continuerà a uscirne, ma pochi, pochissimi nomi che abbiano toccato corde e sensibilità diverse (principalmente la Polachek, Anonhi, Lankum; in seconda battuta Kelela, Sufjan Steven, Mitski, Blur) al punto da riuscire a occupare i primi posti, diciamo da finire almeno in top 20.

Non una cosa negativa, si potrebbe obiettare. Dopotutto la diversità impreziosisce e contemporaneamente aiuta a decifrare la complessità dell’esistente, però il rovescio della proverbiale medaglia è che contribuisce pure alla sua dispersione. Inoltre, se la guardiamo bene, quella complessità che cerchiamo di decrittare è in realtà una complessità strana; una complessità monca nel suo essere in maniera stringente, essa sì, autoreferenziale nel guardare sempre a se stessa, al suo ombelico occidentecentrico. Quindi diviene un po’ una occasione persa, perché voler indagare davvero la complessità – questione facilitata dall’azzeramento delle distanze e dall’eterno presente (toh!) rassicurante di questo tecnoevo ipertrofico – si può fare e ce lo dimostra a vari livelli e con modalità “esecutive” differenti l’operato di spacciatori di mondi sonori “altri” come La Diferencia, le curatele degli ex (ex?) Father Murphy Chiara e Freddie Lee, Cristiano Latini e il suo giro del mondo in ottanta Klang, Luigi Monteanni e Matteo Pennesi col digital folklore da fifth world di Artetetra, ecc. ecc. (mi scusi chi non ho citato, ma “ci sappiamo”).

Se uniamo questa miopia sostanziale ad altre questioni fondamentali del nostro quotidiano quali la naturale e inarrestabile tendenza (nelle piccole così come nelle grandi cose, si pensi all’entropia) alla frammentazione/frantumazione del reale, la vorace spettacolarizzazione in modalità infotainment 24/7 (l’evento, la limited edition pure della pastasciutta, il presenzialismo eccessivo, ecc.), il gusto retromaniaco portato agli eccessi – fondamentalmente basterebbe citare Fisher più che Reynolds per raggrumare centinaia di riflessioni sull’argomento – la risultante è che viviamo, per lo meno in ambito strettamente musicale ma credo che il discorso sia valido anche per molti altri (praticamente tutti) aspetti del reale, in una sorta di mid-stream continuo, di pappone cosmico, di sabbie mobili in cui immobili siamo noi spettatori/fruitori/pubblico e non per salvarci, com’è consigliato di agire nella sventurata possibilità di ritrovarcisi dentro, quanto perché incapaci di prendere una decisione, di intravedere un percorso, una indicazione, uno straccio di direzione. I più diranno che, ovviamente, non c’è sempre bisogno di qualcosa che indichi il percorso, che anche il sol dell’avvenire si è dimostrato poco rilevante per chi non sa guardare, ma i consuntivi, anche musicali, servono appunto a tirare le fila e indicare cosa si sta facendo e soprattutto dove si sta andando. Per capirsi, se la canzone più bella (e chiacchierata) dell’anno, ma al contempo quella più paurosa in termini di rapporto passato/futuro è Now And Then dei Beatles o se, in termini più circoscritti, uno dei dischi “underground” più anacronisticamente apprezzato qua e là è stato un album postumo di più di un decennio (mi riferisco agli Sparklehorse), allora qualcosa è davvero andato storto.

Giunto a questo punto, e avendo letto le considerazioni di Solventi, apparentemente tranchant ma in realtà problematizzanti non solo l’utilità delle classifiche quanto il ruolo della musica in questo eterno presente, mi trovo in una impasse. Come considerare i miei ascolti del 2023? Rassicuranti, ovviamente, se si pensa a come rifugiarsi nel già noto (per quanto avventuroso, coraggioso, indifferente all’hype): in questa categoria ci infilo di sicuro l’estasi orgiastico-orchestrale della Fire! Orchestra e del loro ipertrofico Echoes; il viaggio senza fine verso dimensioni altre dei Necks di Travel, che ormai viaggiano al ritmo di un disco l’anno e finiscono quasi sempre nelle mie scelte conclusive; il contro-futuro prossimo (grazie Morselli) dei Godflesh di Purge, amore formativo e conferma continua; la camaleontica visione di una apocalisse interiorizzata di mr. Gira e degli Swans 3.0 di The Beggar; la saggezza e la purezza indie-pendente degli Yo La Tengo e quella visionaria e sognante degli Slowdive di Everything Is Alive. Accanto a questi pilastri che mai deludono, una sfilza di progetti, in solo o meno, che vorrei uscissero da quelle ormai proverbiali bolle per conquistare un mondo, se il mondo fosse un posto se non migliore per lo meno giusto. Penso all’universo-Magaletti, con Holy Tongue, V/Z e Vanishing Twin a regalare visioni tra ieri e domani o al trittico al femminile Marlene Ribeiro, Alos, Bono/Burattini, in forme diverse in grado di fornire una riflessione sull’attualità ma anche una fuga da questa stessa realtà, allo studio continuo su memoria e persistenza portato avanti da Claudio Rocchetti, o ancora alle invettive CCCPesche – mai come quest’anno di attualità – che Cigno condensa nel suo Nada! Nada! Nada! o ai piccoli haiku psych-exotici di Monde UFO.

Insomma, posizioni e gerarchie giusto per dare un senso alla classifica come fotografia della personale visione del 2023 in musica e passibili di cambiamenti, riposizionamenti, nuove infatuazioni ma anche la sensazione di essersi persi molto per strada. Di aver non proprio dimenticato, ma almeno bucato dischi che recupereremo in futuro, forse casualmente, forse scientemente, continuando quella continua rincorsa alla conoscenza dettata dalla curiosità che forse, e solo forse, ci restituirà un minimo di quella complessità in cui stentiamo sempre più a ritrovarci, il cui motto non può che essere “pubblicate meno, ascoltiamo meglio”.

Fire! Orchestra – Echoes
Holy Tongue – Deliverance And Spiritual Warfare
Bono/Burattini – Suono in un tempo trasfigurato
Piotr Kurek – Smartwoods
Alos – Embrace The Darkness
Marlene Ribeiro – Toquei No Sol
Swans – The Beggar
Godflesh – Purge
The Necks – Travel
Vanishing Twin – Afternoon X
Monde UFO – Vandalized Statue To Be Replaced With Shrine
Claudio Rocchetti – Labirinto Verticale
Kali Malone – Does Spring Hide Its Joy
V/Z – Suono Assente
Yo La Tengo – This Stupid World
Slowdive – Everything Is Alive
Model/Actriz – Dogsbody
Cigno – Nada! Nada! Nada!
Alessandra Novaga & Kid Millions – Sinopia
Lankum – False Lankum