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Parla Gabriele Guidi: “Mi ha salvato la severità di mio papà Johnny Dorelli”

Parla Gabriele Guidi: “Mi ha salvato la severità di mio papà Johnny Dorelli”

«Papà, ieri a cena ci ha messo un nonnulla a farmi ritornare indietro nel tempo, fino alla mia adolescenza. Stavo raccontando una vicenda che mi accalorava e al secondo c…zo usato come intercalare mi ha freddato: “Che ne diresti di moderare il linguaggio?”». Gabriele Guidi, produttore di film e spettacoli, ex broker, ex compagno dell’attrice Antonia Liskova, alla fine, suo malgrado, deve ammettere che in certi momenti torna a essere soprattutto il figlio di Johnny Dorelli e Catherine Spaak.



RESTA SEMPRE IL FIGLIO DI… – «Emanciparsi dal ruolo di “figlio di” non è stata una passeggiata. Appena nato, sono finito sui giornali. I miei non erano sposati e io non ero un bebè, ma uno scandalo. Crescendo i compagni di scuola mi chiedevano se a casa mio padre era veramente come Dorellik, un personaggio che aveva interpretato, mentre i padri dei miei compagni mi chiedevano di mia madre. Era un assedio: una volta, avrò avuto nemmeno 10 anni, stavo raggiungendo in treno Milano, dove mi aspettava mia nonna. Arriva il controllore e mi costringe a cantare Nell’immensità davanti a tutti: mi sarei sotterrato. Una volta, però, mi sono goduto una piccola rivincita: passeggiavo per piazza Navona con la mamma, e a un tratto una signora anziana la squadra, si avvicina e la incalza: “È inutile che fai finta di niente, io ti seguo da sempre! Ora mi fai un autografo. Scrivi: a Lella da Catherine Deneuve”. E così mia mamma l’ha accontentata firmando come l’attrice francese».

Com’è riuscito a tenere la rotta in questa tempesta di sentimenti e inevitabili confronti? «Credo che il merito sia di mio padre. Era tostissimo, mi concedeva meno di ciò che in genere era concesso ai miei coetanei. Non voleva fare di me in nessun modo un privilegiato. Tutti mi dicevano: “Chissà quanto ti diverti a casa con tuo padre”. E invece era severissimo. Dovevo rientrare prima degli altri, il motorino l’ho avuto a 17 anni, niente chiavi di casa e l’estate dovevo comunque studiare, anche se ero promosso. Insomma, a casa il clima non era quello di una commedia di Castellano e Pipolo».



Perché Johnny Dorelli si comportava così? «“Perché sì” rispondeva. In realtà cercava con l’esempio di rendere chiare le sue idee. Né lui né gli amici che frequentavano casa nostra, ad esempio Paolo Panelli, si sentivano di una razza a parte. Si consideravano dei lavoratori. Non ho mai sentito ad esempio mio padre essere scortese con uno scenografo o con un tecnico. Gli piaceva la disciplina del lavoro. Anche per questo si è eclissato: per lui gli artisti, come tutti, a un certo punto devono andare in pensione».

Suo padre le ha insegnato il rigore. Da sua madre che cosa ha imparato? «A coltivare tanti interessi. Ma pure lei, che nell’immaginario era un simbolo di leggerezza e charme, nella vita reale aveva degli accenti di grande malinconia. Veniva da una famiglia colta, importante, ma il suo rapporto coi genitori è stato difficile. Il padre era molto duro, la madre distratta, distante, fredda».


Lei è arrivato tardi allo spettacolo. Come mai? «In realtà, ancora andavo alle elementari, e già avevo un piccolo compito in teatro: nel finale di Aggiungi un posto a tavola, dal fondo della galleria lanciavo la colomba che poi finiva sul palco. Certo, poi dopo la laurea ho fatto il broker: me la cavavo bene,ma non mi piaceva».

Per quale motivo? «Devi far guadagnare chi ti affida i suoi capitali, ma poi il tuo lavoro viene vanificato da cose che non puoi controllare, come la pandemia. Io ad esempio ho mollato dopo l’11 settembre 2001».

E ha scelto la sicurezza che dà il mondo dello spettacolo… «Certo, detta così sembra un paradosso. Ma ora sono soddisfatto. Seguire mostri sacri come Gigi Proietti o Ennio Morricone è sempre motivo di stupore».

E di preciso in cosa è stato sorpreso? «Gigi era un portento: dopo lo spettacolo si andava a cena e ne iniziava un altro. Tiravano sempre le 5. Lui aveva fisicamente bisogno di un pubblico, di un clan, altrimenti sembrava si sentisse solo. Di Morricone invece era incredibile come fosse in grado di esprimere i sentimenti con le note, e di quanto fosse gelido con le parole. Una volta, alla fine dello spettacolo, col pubblico che ancora applaudiva in piedi, venne da me, che ero il produttore, e disse: “Faccio solo due bis. Poi vado a cena che ho fame”. Lavorare in quell’ambiente, ascoltare cosa dicono gli artisti, vedere come lavorano è una cosa che apre la mente. Ad esempio, frequentando gli orchestrali durante i concerti di Ennio, sono venuto a conoscenza della storia della Fortezza di Terezin, in Repubblica Ceca, dove vennero rinchiusi gli artisti di origine ebrea. Una storia su cui ho prodotto un film, e dagli approfondimenti che ho fatto su quell’argomento mi sono imbattuto poi nel mercante d’arte di Hitler, Hildebrand Gurlitt, e nel figlio Cornelius, che ha vissuto in solitudine con la sola compagnia di 1.400 dipinti, molti dei quali probabilmente trafugati agli ebrei. E da questa storia pazzesca ho pubblicato il libro Lo Scambio».

Andrea Greco