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Nicola Di Bari: “Diventai un cantante per aiutare un gelataio rimasto senza voce”

Nicola Di Bari: “Diventai un cantante per aiutare un gelataio rimasto senza voce”

La carriera di Nicola di Bari non è esattamente breve («compie sessant’anni, è iniziata assieme all’amore per mia moglie Agnese, il più grande successo della vita»). Ma in due di questi anni Michele Scommegna, com’è stato registrato all’anagrafe quasi 83 anni fa prima di scegliere un nome d’arte che omaggiava il suo santo preferito, fu semplicemente il primo e l’unico. Tra il 1971 e l 1972: due Sanremo e in mezzo Canzonissima, «che era più difficile del Festival, in cui andavi, cantavi una canzone una o due volte e via. No, alla lì dovevi partecipare ogni sabato, avere il consenso costante di cartoline postali e delle giurie popolari. E anche il successo ti restava appiccicato di più». Nessuna traccia, anche rivedendolo le immagiini di allora tra YouTube, RaiPlay, Techetecheté, di atteggiamenti scomposti: mai un’esultanza sopra le righe, un grido, qualcosa che somigli allo sfottò allo sconfitto. Anzi, dopo la proclamazione della vittoria di Il cuore è uno zingaro a Sanremo lui sparì nei sotterranei del casinò. Dovettero stanarlo per premiarlo.

In generale lei è sempre stato una persona, non un personaggio, una star. Mai un gossip, mai un collega che abbia potuto dir male di lei. Non sa che i cantanti ora fanno ben diversamente da lei?

«Che devo dirle? Io non mi sono mai sentito una star: andavo su un palco proponendo la mia musica al pubblico che me lo chiedeva. La mia idea era quasi di dialogare con ogni singola persona. E non mi sono mai negato a nessuno, neanche fuori concerto».

Non si negò nemmeno a un gelataio rimasto senza voce.

«Avevo 16 anni, ero alla sagra del mio paese, Zapponeta. C’era un gelataio triste, col suo carretto. Una raucedine improvvisa gli impediva di attirare i clienti. Ci pensai io: presi il microfono e cominciai a gridare. Arrivò la folla. Un amico propose anche che cantassi».

Un trionfo.

«Non sa quanto. Passò di lì un talent scout che volle a tutti i costi che andassi a Milano a fare il cantante. Lo desideravo anche io, non i miei genitori. Ero l’ultimo di 10 figli, gli altri avevano fatto i contadini, per me volevano che proseguissi negli studi. Alla fine vinsi io».

Andò subito bene?

«Dipende da che punto di vista. Artisticamente no, o meglio i passi erano lenti. Ma conobbi Agnese, la donna della mia vita. Eravamo su un bus milanese, affollatissimo, io le cedetti il posto. La rividi la sera e da lì nacque tutto il resto».

E con Agnese ecco il successo. Amici miei, Amore ritorna a casa, l’Italia inizia ad accorgersi di questo tizio con occhialoni da nerd, il ciuffo un po’ ribelle e questa voce grezza, cavernosa.

«Che io temetti a lungo fosse il mio punto debole, invece mi distingueva da tutti».

Era a Sanremo nel 1967, l’anno di Tenco.

«Non mi faccia dire niente, sono ancora sconvolto a pensarci. Era un amico vero: dopo la morte, la madre mi chiese di fare un disco con le sue canzoni, “puoi farlo solo tu”. Ed ecco Nicola Di Bari canta Luigi Tenco».

Stiamo ancora a Sanremo, ma del 1970. È vero che La prima cosa bella doveva cantarla con Gianni Morandi che poi si rifiutò?

«La proposi a Gianni, come anche a Modugno, Endrigo e Patty Pravo. Ma erano tutti già impegnati. E serviva l’accoppiata. Mi folgorarono i giovani Ricchi e Poveri. Fu la loro grande chance e la sfruttarono».

È vero che le chitarre in sala incisione le suonò Lucio Battisti?

«Certo. Un grande amico. A volte scontroso, ma che genio. In quella canzone il testo fu risistemato da Mogol. L’avevamo scritto io e Agnese per salutare la nostra primogenita Ketty. Con un figlio nasce una storia nuova per la tua vita, se non lo provi non puoi capirlo. Con una famiglia tutto diventa importante. E io ne sono uno strenuo sostenitore».

Quella canzone fu la svolta.

«Mi diede la certezza che questo sarebbe stato il mio mestiere. L’anno dopo tornai con Nada e Il cuore è uno zingaro. Vinsi grazie anche a lei, si capiva sarebbe diventata grande»

E poi Canzonissima, strappata all’ultimo a Massimo Ranieri con Chitarra suona più piano.

«Lui era formidabile e aveva un bel vantaggio fino all’ultimo. Ma furono le giurie popolari a cambiare la classifica. Votarono gli italiani e così decisero».

Rivince Sanremo nel 1972 con I giorni dell’arcobaleno. E poi?

«E poi forse stavo chiedendo troppo al festival. Feci tour all’estero, e in America Latina sono tuttora popolarissimo».

Si è chiesto perché?

«Perché sono bello e seducente, no? No, conquistai tutti con le mie canzoni e la mia passione. E l’Argentina è un mercato difficilissimo».

Ma il regime di Videla censurò una sua canzone, Mia, del 1976.

«Arrivai a Buenos Aires e mi dissero di non cantarla. Figuriamoci, una canzone d’amore, niente di politico. La cantai e non successe nulla. Semmai la censura la subii in Italia».

Questa ci manca.

«Ne I giorni dell’arcobaleno c’era un verso, “la mano saliva e svelava il mistero”, che la Rca giudicò malizioso. Lo cambiò con “la notte si accese di mille colori”, che mi pare più esplicito».

Lei ha anche recitato, benché in casa sia il mestiere di sua figlia Arianna, grande attrice teatrale.

«Lascio a lei, che è bravissima, questo mestiere. Io ho solo recitato in Torino nera di Carlo Lizzani, se non fosse uscito in contemporanea al Padrino avrebbe avuto maggior successo, e in Tolo Tolo di quel genio comico di Checco Zalone. In più, l’emozione di sentire Malika Ayane cantare La prima cosa bella nel film di Virzì».

Si rivede mai giovane e in bianco e nero in tv?

«Sì, e mi arrabbio come una bestia per i capelli di allora. Ma mica li ho persi, è che ora mi rapo. Posso dire una cosa per chiudere?».

Prego.

«Sono appena tornato dai funerali di Peppino Gagliardi, un grande della musica italiana dimenticato troppo presto. E un ottimo amico».