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Perdonaci, Sinead

Perdonaci, Sinead
Perché quella di Sinéad O’Connor è stata una figura cristologica nella storia del pop.

Di Mattia Marzi

“Il fuoco che aveva nei suoi occhi ti faceva capire che il suo attivismo era un riflesso della sua anima e non un gesto politico”, hanno scritto i Massive Attack sui social ricordando Sinéad O’Connor, alla quale nel 2003 chiesero di interpretare tre canzoni del loro album “100th window”. “Era una forza della natura. Una cantautrice e un’interprete brillante di cui non vedremo più il talento. Ha combattuto con coraggio i suoi demoni personali”, ha twittato invece Tori Amos. Sono solamente un paio delle tante testimonianze condivise in queste prime ore trascorse dalla scomparsa della cantautrice irlandese da parte di chi da quel fuoco è stato bruciato o rischiarato.

Il successo mondiale di “Nothing compares 2 U” nel 1990 anticipò di quattro anni quello di “Cornflake girl”, la hit che nel 1994 diede una svolta alla carriera di Tori Amos: se oltremanica la personalità dirompente e clamorosa di Sinéad O’Connor non avesse sconquassato come un terremoto il music biz, probabilmente .non sarebbe esistita un’intera generazione di cantautrici rock come quella di cui la Amos è stata una delle massime rappresentanti. Quando nel 1994 “Cornflake girl” cominciò a scalare le classifiche, la parabola di Sinéad O’Connor era già da tempo irrimediabilmente in discesa. Fu in un apparentemente tranquillo sabato sera che la carriera della popstar irlandese, oltre 10 milioni di copie vendute a livello planetario tra l’album “I do not want what I haven’t got” e la hit “Nothing compares 2 U” (una rivisitazione di un brano scritto da Prince per i The Family ma passato totalmente inosservato nella sua versione originale, prima della reinterpretazione di Sinéad), finì. E cominciò la leggenda dell’artista difficile, intransigente, ingestibile: un cavallo pazzo destinato a tenere per anni con il fiato sospeso fan e addetti ai lavori.

"Fight the real enemy"
La data spartiacque, nella storia personale e musicale di Sinéad O’Connor, è quella del 3 ottobre 1992. Ospite di una puntata del Saturday Night Live, show di punta della tv americana, seguito ogni sabato oltreoceano da milioni di spettatori, la cantautrice irlandese davanti alle telecamere cominciò a cantare a cappella una vecchia canzone di Bob Marley, “War”. Che stesse succedendo qualcosa di non previsto, di non scritto, gli autori lo avevano capito quando Sinéad aveva tirato fuori dal suo vestito una foto. Ritraeva Papa Giovanni Paolo II. Non potevano immaginare cosa sarebbe successo negli istanti successivi: terminata la sua esibizione, Sinéad strappò la fotografia in mille pezzettini. “

Fight the real enemy”, “Combatti il vero nemico”, disse, sguardo fisso in telecamera. Fu uno shock: “Avevo trovato un articolo sulle famiglie che avevano cercato di sporgere denuncia contro la chiesa per abusi sessuali e venivano messe a tacere. Fondamentalmente tutto ciò in cui ero stata educata a credere era una bugia. Il lavoro di un artista a volte è generare discorsi difficili che devono essere affrontati. A questo serve l’arte”, avrebbe detto lei - cresciuta “in un paese in cui il cattolicesimo ha avuto forme di teocrazia fondamentalista non riscontrabili in altre nazioni” - anni dopo, spiegando il senso di quel gesto. Ma il vero nemico di Sinéad era Sinéad stessa. Fu, quello, l’inizio della fine. I media cominciarono a ostracizzarla e così anche l’industria. Due anni prima sul palco dei Grammy Awards, gli Oscar della musica, aveva ritirato il premio come “Miglior album di musica alternativa” per “I do not want what I haven’t got” e quello stesso anno era stata candidata per la statuetta come “Miglior video musicale” per quello di “You made me the thief of your heart”. In seguito a quel gesto, il suo nome finì nella blacklist degli organizzatori. Frank Sinatra, icona reazionaria e conservatrice, disse che avrebbe voluto “prenderla a calci nel culo”. Quando due settimane dopo quell’apparizione al Saturday Night Live si presentò sul palco del Madison Square Garden durante un concerto per i trent’anni di carriera di Bob Dylan, fu ricoperta dai fischi del pubblico. Se ne andò piangendo.


Una figura cristologica
La figura di Sinéad O’Connor è stata una figura cristologica, quasi pasoliniana, nella storia della musica pop-rock. Una sorta di capro espiatorio che attirò su di sé i mali dell’industria, salvo poi essere brutalmente sacrificata, messa in croce. "Aveva così tanto da dare. È stata abbandonata dalla sua etichetta dopo aver venduto 7 milioni di copie con un album. Aveva un'orgogliosa vulnerabilità. E c'è un certo odio da parte dell'industria musicale nei confronti di cantanti che non si adattano. Vengono elogiati solo quando sono morti. Quando alla fine non possono neppure replicare", ha tuonato in queste ore Morrissey, puntando il dito contro l'ipocrisia dei media, che per anni hanno deriso Sinéad e oggi pubblicano editoriali su editoriali dedicati alla cantautrice.

Arrivò al grande successo, destabilizzante, travolgente, a soli 23 anni. Passando per un’infanzia drammatica e un’adolescenza problematica: dalle violenze domestiche subite in casa da parte della madre ai furti e la cattiva condotta scolastica che a 15 anni la portarono ad essere .rinchiusa per un anno e mezzo in un manicomio. Difficile reggere certe pressioni, se dentro hai dei vuoti mai colmati: “Sono cresciuta con molti traumi e abusi. Non c’era terapia ai tempi. C’era la musica. E io volevo solo urlare. Poi sono entrata direttamente nel mondo della musica. Non mi sono mai presa il tempo necessario per guarire. Non ero neanche pronta per farlo”, avrebbe riconosciuto lei, che prima dell’exploit con “Nothing compares 2 U” aveva dovuto combattere contro i discografici perché volevano impedirle di portare a termine la gravidanza, a inizio carriera e all’apice del successo si era messa in testa di boicottare i Grammy Awards, rei di ignorare i rapper afroamericani. Vittima della cancel culture trent’anni prima che la cancel culture avesse un nome, Sinéad sarebbe stata riscoperta dal pubblico e dagli addetti ai lavori troppo tardi. Quando era ormai un caso irrecuperabile (era l’estate del 2017 quando postò su Facebook un video di più di dieci minuti in cui esprimeva piangendo tutta la disperazione di una donna sola e malata).


C'è un po' di Sinead anche in Britney e in Miley Cyrus?


Eppure lei è sempre andata dritta per la sua strada. Tortuosa, labirintica, non facile da percorrere. Senza mai scendere a compromessi, da artista pioniera e visionaria quale è sempre stata, una combinazione affascinante di impavidità punk e autenticità che le ha permesso di lasciare un segno indelebile e nel tempo ha ispirato chi è venuto dopo di lei. C’è un po’ di Sinéad anche in Britney Spears che scapoccia e si rasa i capelli a zero o in Miley Cyrus che chiude in sof***** il redditizio alter ego di Hannah Montana, distrugge il suo passato cavalcando nuda una palla demolitrice e di punto in bianco incide un disco con i Flaming Lips sfidando le ragazzine che l’avevano seguita fino a quel momento.

Ci fu un momento in cui la strada di Sinéad e quella dell’ex stellina Disney si incrociarono. Accadde quando nel 2013, l’anno della svolta della Cyrus con “Wrecking ball”, la cantautrice irlandese scrisse alla giovane collega una lettera aperta, mettendola in guardia dai meccanismi oscuri dello show biz. Gli stessi che lei aveva conosciuto da vicino e ai quali si era ribellata: “.Sono davvero preoccupata per te. Stare nuda in un video è tutt’altro che figo e oscura solo il tuo talento. Non farti sfruttare e non prostituirti per gli altri. Ti sfrutteranno fino a quando converrà a loro facendoti pensare che sia quello che anche tu vuoi davvero. Voglio incoraggiarti a mandare messaggi più sani ai tuoi coetanei”. La risposta di Miley Cyrus fu sprezzante. E mortificante. La voce di “Wrecking ball” paragonò Sinéad O’Connor all’ex attrice, in cure psichiatriche, Amanda Bynes, ripubblicando vecchi tweet in cui la cantautrice irlandese chiedeva aiuto per i suoi problemi personali. “Hai idea di quanto sia stupido deridere le persone che hanno seri problemi? Anche tu un giorno ne avrai, stanne sicura. Quando finirai in clinica sarò felice di passare a salutarti, e non ti prenderò di certo in giro. Come ti sei sentita quando la tua amica Britney è stata umiliata per i suoi problemi? Presto per i media potrai essere tu la ‘pazza’ e non sarà bello. Apprezzerai le persone come me che ti daranno sostegno”, la risposta della O’Connor.

"Hanno cercato di seppellirmi, ma non sapevano che ero un seme"
L’affetto ricevuto, tutto insieme, negli ultimi mesi, quelli trascorsi dalla drammatica morte del figlio Shane, morto suicida all’inizio dell’anno scorso a soli 17 anni, non è bastato a risarcire Sinéad, donna dall’esistenza turbolenta, travagliata e irrequieta, artista intransigente sul piano politico e vessata dai media per istanze che nel presente sono diventate un elemento di unione e di condivisione: “Qui tutti quanti vogliono pop star. Ma io sono una cantante di protesta. Ho dei pesi da togliermi dal petto. Non ho desiderio di fama”, aveva scritto un anno e mezzo fa nell’autobiografia “Rememberings”.

All’inizio dell’anno si era commossa quando sul palco dei RTÉ Choice Music Awards, i premi dell’industria irlandese, le avevano consegnato un riconoscimento speciale per “I do not want what I haven’t got”, oggi considerato una pietra miliare del cantautorato rock femminile. La regista irlandese Kathryn Ferguson l’anno scorso le aveva dedicato il documentario “Nothing compares”, presentato in anteprima in occasione di alcuni festival cinematografici (con successo), ma ancora in attesa di una distribuzione ufficiale: “.Non volevo essere una popstar. Hanno cercato di seppellirmi, ma non sapevano che ero un seme”. Perdonaci, Sinéad.