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Con quella bocca Mick Jagger può cantare ciò che vuole

Con quella bocca Mick Jagger può cantare ciò che vuole
Il leggendario frontman dei Rolling Stones compie oggi 80 anni

Di Redazione

Fa strano scriverlo, oggi Mick Jagger compie 80 anni. Il musicista britannico è il simbolo del rock a tutte le latitudini. A 80 anni non si è ritirato a godersi la più che guadagnata pensione, ma è ancora sulla breccia con i suoi Rolling Stones. Quando si dice vendere l'anima al diavolo. Ma non di soli Stones è lastricata la carriera di Sir Mick Jagger. Al suo attivo anche quattro album pubblicati a suo nome. Due usciti negli anni Ottanta, "She's the boss" e "Primitive cool", uno nei Novanta "Wandering spirit" e l'ultimo, "Goddess in the doorway", nel 2001. Ed è proprio ripubblicando la recensione di quest'ultima fatica solista di Mick che ci inchiniamo alla leggenda e gli porgiamo i migliori auguri di buon compleanno.

“Con quella bocca può dire ciò che vuole”. Era lo slogan di una vecchia pubblicità di Carosello, potrebbe essere anche quello del nuovo disco solista di Mick Jagger. Che, detto per inciso, è una delle voci più importanti del rock ma da solista ha spesso mancato il bersaglio: eccezion fatta per “Wandering spirit” (disco dignitoso prodotto da Rick Rubin), le precedenti prove fuori dagli Stones (“Primitive cool” e "She’s the boss”) non erano certo memorabili.


La storia si ripete con questo atteso “Goddess in the doorway”. Mick è un personaggio unico, la sua voce e le sue capacità interpretative non si discutono. Le canzoni di questo album, quelle sì, sono spesso discutibili. Il problema principale è che questo quarto disco è frutto di un lavoro patchwork, a cui hanno partecipato alcuni tra i nomi più importanti del firmamento rock: Bono, Lenny Kravitz, Pete Townshend, Wyclef Jean, Rob Thomas (Matchbox 20) e almeno sei produttori diversi.





Ciò che ne viene fuori è una raccolta di 12 buoni brani, accomunati da diversi accenni al lato spirituale della vita (ecco alcuni titoli: “Dio mi ha dato tutto”, “Dea nel corridoio”, “Visioni del paradiso”, “Gioia”, “Regole nuove di zecca”). Canzoni che, però, sarebbero potute essere stupende se fossero state pensate con un po’ più di omogeneità.





Prendete “Joy”: cantata in coppia con Bono, impreziosita dalla chitarra di Pete Townshend. Uno dice: con tre nomi del genere, sarà da urlo. Invece è semplicemente una gran bella canzone, che avrebbe potuto essere invece un capolavoro. Notevole anche il singolo “God gave me everything”, rockaccio scritto e suonato da Lenny Kravitz che, per una volta, non fa rimpiangere la chitarra di Keith Richards.


Sono poi presenti diverse concessioni a suoni “diversi” come il reggae/hip-hop di “Hideaway” (si sente la mano di Wyclef Jean) o la disco con chitarre elettriche di “Gun”, che ricorda vagamente “You spin me round” dei Dead Or Alive, insieme a più classici rock o ballatone come “Brand new set of rules” o “Don’t call me up” (cantata “alla Dylan”, con le vocali strascicate). Ma, appunto, tutto questo risulta troppo “diverso” e disomogeneo.


Da uno come Jagger ci si può e deve aspettare qualcosa di più: la voce è quella di sempre (con quella bocca può dire ciò che vuole, appunto, e ne verrebbe fuori comunque una bella canzone), ma alcune scelte lasciano un po’ perplessi.