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Manuel Agnelli: “I sold out? Biglietti regalati e cifre gonfiate”

Manuel Agnelli: “I sold out? Biglietti regalati e cifre gonfiate”
"È un periodo di merda. Ma esploderà": la videointervista al rocker, nel backstage del Rock in Roma.

Di Mattia Marzi

“Dopo la tv e il teatro mi riapproprio del mio habitat, il palcoscenico. E lo faccio senza avere nulla da promuovere. Questo è un tour inutile: andiamo in giro a suonare solo perché abbiamo voglia di suonare”, dice Manuel Agnelli Il frontman degli Afterhours - la band è in pausa a tempo indeterminato - si toglie di dosso i panni di Thomas Jerome Newton, il protagonista di “Lazarus”, il protagonista del musical-testamento di David Bowie che ha recentemente interpretato nella versione italiana portata in scena da Walter Malosti, e torna a indossare quelli dell’irriducibile rocker.

Qualcosa da promuovere, in realtà, c’è: nella scaletta dei concerti della .tournée estiva accanto ai brani più iconici degli Afterhours ci sono le canzoni incise da Agnelli per l’album d’esordio da solista “Ama il prossimo tuo come te stesso”, uscito lo scorso settembre. “Cercavo un po’ di leggerezza, di semplicità”, dice il 57enne cantautore milanese, che questa sera farà scatenare il pubblico della Capitale radunato sotto il palco del Rock in Roma all’Ippodromo delle Capannelle.



Negli ultimi anni con gli Afterhours quella leggerezza era venuta a mancare?

“Sì. Eravamo arrivati a un punto in cui avevamo ciascuno il proprio progetto parallelo alla band. Organizzare l’attività degli Afterhours nei ritagli di tempo dei vari componenti mi sembrava svilente, rispetto alla band. Ho inziato a far fatica a tenere insieme la baracca, dopo una gavetta lunghissima, in un’Italia un po’ strana, che somiglia a quella di adesso”.



In cosa?

“C’erano pochi spazi nei quali muoversi, scarsa considerazione della musica, dell’arte e della cultura come di cose fondamentali. E poca condivisione da parte della gente. Un po’ come oggi. Ci sono solo grandi eventi. Ma è giusto anche portare in giro una visione diversa di quello che può essere fare musica in questo momento storico”.

In un’estate caratterizzata dalla corsa al gigantismo, al sold out a tutti i costi, tu in che direzione ti muovi?

“Opposta. Altrimenti non avrei fatto questo tour: non avendo pubblicato recentemente nuova musica, non è per niente conveniente con tutto quello che c’è in giro in questi mesi, sotto ogni punto di vista. Mi muovo pensando che ci sarà un ritorno, da parte del pubblico, ad andare a cercare cose con curiosità, oltre i concerti fatti di basi, autotune, fuochi d’artificio e ballerine”.

Dopo due anni di pandemia questa corsa al gigantismo fa più bene o più male alla musica?

“Più male, direi. Perché è una corsa dopata. Molti di questi numeri sono gonfiati. Alcuni biglietti sono regalati. L’evento in sé esula dal contenuto: non importa pure cosa c’è dentro, alla fine. È l’apoteosi di quest’era basata sul culto del consenso a tutti i costi. E dei numeri come unico modo per stabilire se una cosa vale o non vale. C’è una tale destrutturazione culturale che per le persone, ormai, solo i numeri hanno un valore oggettivo. È un periodo di merda. Ma prima o poi esploderà. Speriamo che non ci inondi tutti”.

Cosa racconti sul palco?

“Questa fase della mia vita e della mia carriera. All’insegna di una grande libertà. Ho la fortuna di poter fare quello che voglio. Me la sono guadagnata, in tutti questi anni”.



In che modo il Manuel Agnelli solista e gli Afterhours riescono a stare in equilibrio, in scaletta?
“In maniera semplice: l’80 per cento delle canzoni degli Afterhours le ho scritte io, parlando di cose che mi riguardavano o che riguardavano persone che conoscevo io.

Le sento mie. Mi appartengono anche al di fuori degli Afterhours. Nel tour il passato incontra il presente. Penso che la gente ai concerti degli Afterhours cercasse garanzie, rassicurazioni. E se non le trovava, tornava a casa delusa. Tutto bellissimo. Ma per un artista, quella roba è la morte: significa essere fossilizzati in un’immagine troppo rigida e claustrofobica. È un altro grande motivo per il quale gli Afterhours sono in pausa. Con il mio tour riesco ad avere capra e cavoli: celebro il passato, ma racconto anche qualcosa di fresco e di nuovo”.


Non è più un mistero: la voce femminile che compare accanto alla tua in "Lo sposo sulla torta", su disco attribuita alla misteriosa Vaselyn Kandynsky, è quella di tua figlia Emma. Non le hai chiesto di seguirti in tour?

“No. Penso che abbia tutto il diritto di crescere e di godersela, suonando nella sua band e portando avanti i suoi progetti lontana da me. Le fa bene e non voglio interrompere questo benessere mettendola subito davanti alle tensioni che ci sono nel mondo della musica”.

Nella band che ti accompagna dal vivo, accanto al bassista Giacomo Rossetti e alla polistrumentista Beatrice Antolini ci sono anche Frankie e DD dei Little Pieces of Marmelade: alla fine sei riuscito a ricavare qualcosa di buono anche dalle ultime edizioni di “X Factor”, dopo i Maneskin?

“È così. I Little Pieces of Marmelade, Maneskin a parte, sono stati il mio vero miracolo a ‘X Factor’: sono arrivati all’ultimo scontro, perdendo per una manciata di voti, suonando un genere musicale che per la tv è terroristico. Sono il mio più grande orgoglio. Ma quel programma ha fatto bene anche a me”.

Cioè?

“Mi ha dato uno status all’interno di questo mondo che oggi mi permette di fare quello che voglio. Oggi se ho in mente un progetto, riesco a realizzarlo. Se non ci fosse stato ‘X Factor’ non sarei riuscito a fare ‘Ossigeno’, ‘Lazarus’, ad aprire il mio centro culturale Germi a Milano”.

“Tutta la mia vita è stata una pazzia totale e non sono un grande fan di me stesso”, hai detto. Cos’è che ti rimproveri, a 57 anni?

“Niente, in realtà.

Rifarei tutto quello che ho fatto. È banale dirlo, ma anche le cose che ho sbagliato sono servite tantissimo a raggiungere una consapevolezza rispetto a quelo che volevo fare. Però sicuramente come tutti gli esseri umani ho dei lati di me stesso che ancora non sono riuscito a capire bene. Altrimenti a quest’ora avrei forse già smesso di scrivere canzoni, che sono un po’ la mia piccola terapia e anche un po’ la mia confessione, da non cattolico ma impregnato di cattolicesimo. Io quando scrivo canzoni è come se mi confessassi, è come se dicessi veramente quello che sento e quello che sono e in questo modo mi assolvessi. E di questo, purtroppo, ho ancora bisogno”.