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Arctic Monkeys: il rock piace anche alle ragazzine dei Parioli

Arctic Monkeys: il rock piace anche alle ragazzine dei parioli
Lo show romano, davanti a 34 mila fan, è il trionfo della band e del suo leader: la recensione.

Di Mattia Marzi
Colpiscono a freddo, andando dritti al sodo. Senza giri di parole. Neanche il tempo di presentarsi davanti ai 34 mila accalcati nell’area dello show e prendere ciascuno il proprio posto sul palco che subito ipnotizzano la folla con la seducente “Sculptures of anything goes”, tra bassi e sintetizzatori. È un’illusione. Con il riff di “Brianstorm” fanno partire i cori dei fan, dando inizio alla festa: “Po-po-roo, po-po-po-po-poo-poroo”. “Roma, come stai?”, chiede Alex Turner. L’anello bianco che si accende alle spalle della band, un richiamo ai programmi televisivi musicali degli Anni ’60 e ’70, dove vengono proiettati filmati in technicolor dal sapore vintage che restituiscono l’estetica a cui gli


Arctic Monkeys hanno legato la loro musica e la loro immagine negli ultimi anni, rende il recupero del surf rock del pezzo ancora più filologico: è un convulso assalto all’arma bianca tra ribalderia punk e spaghetti western quello con il quale la band britannica dà il benvenuto al pubblico del Rock in Roma. Cantano, saltano e ballano tutti (anche Madame e Ariete, in area vip), nella polveriera dell’Ippodromo delle Capannelle, dove ieri sera Alex Turner e soci si sono esibiti per la seconda data italiana del tour mondiale legato all’album “The car”, dopo il trionfo da 65 mila biglietti venduti per lo show di sabato a Milano.

In migliaia si sono presentati fuori dall’ippodromo capitolino sin dalle prime ore dell’alba, per poi correre dentro la struttura all’apertura dei cancelli, sotto il sole cocente delle 15, cercando di assicurarsi i posti migliori sotto il palco, attaccati alle transenne. Possibilmente davanti al bello e dannato Alex Turner, sempre più convinto del suo ruolo da leader: mentre sfoggia il suo look rockabilly, tra camicia bianca dal colletto ampio, jeans, stivaletti e gli inseparabili Aviator Classic, ancheggia e si pavoneggia a frontman carismatico e affascinante, facendo battere il cuore alle ragazzine che lo guardano con gli occhi a cuoricino mentre si sistema di tanto in tanto quel ciuffo.

.È il belloccio della scuola, bello e impossibile, che manda a tappeto le sue ammiratrici quando per un attimo, su “Why’d you only call me when you’re high?”, lascia da parte la chitarra per sedersi al piano. “What a fantastic roman night!”, sorride. “Snap out of it”, “Don’t sit down ‘cause I’ve moved your chair”, “Crying lighting”, “Teddy picker”: è recuperando sin dai primi pezzi in scaletta le ritmiche irresistibili e le chitarre dei lavori passati che Turner e compagni puntano a conquistare per quasi tutta l’intera durata del concerto, un’ora e mezza filatissima, la marea umana che si è data appuntamento sotto il palco del Rock in Roma, per quello che è l’evento di punta del cartellone del festival (i biglietti messi in vendita a dicembre, sono andati sold out in un mese, spingendo gli organizzatori a dichiarare il sold out a quota 34 mila tagliandi venduti, ai limiti della capienza). E che non delude le aspettative.

Nel 2018, l’anno del loro ultimo passaggio a Roma, ad applaudirli sotto il palco della Cavea per i due appuntamenti capitolini del tour dell’album Tranquillity Base Hotel & Casino c’erano in tutto 10 mila spettatori. Ieri sera ce n’erano più del triplo, a certificare lo status speciale raggiunto dagli Arctic Monkeys a diciassette anni dall’esordio con “Whatever people say I am, that’s what I’m not”: quello di band generazionale che anche in Italia, come fa all’estero ormai da tempo, può puntare agli stadi. L’urgenza espressiva di lavori come “Favourite worst nightmare” e “AM”, dai quali vengono estratti il maggior numero di brani, da “Arabella” a “Do me a favour”, passando per “R U mine?”, sul palco del Rock in Roma incontra la maturità stilistica e compositiva di “Tranquillity Base Hotel & Casino” (dal quale viene però pescato un solo brano, “Four out of five”) e “The car”: Alex Turner, Jamie Cook, Nick O’Malley e Matt Helders

non sono più “una gang di ragazzini che perdevano tempo per la noia”, così come li definì il primissimo cantante Glyn Jones, che si stufò presto di quelle jam in garage lasciando a Turner il microfono, uno dei tanti clamorosi sliding doors della storia del rock’n’roll. Gli Arctic Monkeys hanno cambiato pelle e sonorità, sono cresciuti e maturati. L’energia delle loro performance è sempre la stessa, ma oltre le chitarre, oggi, c’è di più: basti ascoltare un pezzo come “There’d better be a mirrorball”, una ballata cinematografica con richiami al pop raffinato degli Anni ’60 e al jazz che sembra uscire fuori dalla colonna sonora di un film di 007, che dal vivo Alex Turner interpreta al centro del palco, mentre una sfera specchiata volteggia sulle teste dei musicisti, roba che per un attimo sembra di essere al momento del lento alla festa di fine anno scolastico in un college americano.

Insieme agli altri brani di “The car” inseriti qui e là in scaletta tra le varie “505”, “Do I wanna know?” e “Fluorescent adolescent”, da “Perfect sense” a “Body paint” (con un outro lunghissimo), è tra i punti più alti mai raggiunti dagli Arctic Monkeys, la cui popolarità non ha tolto nulla al loro coraggio di sperimentare: d’altronde con quell’attitudine lì e quel carisma, Turner può fare tutto quello che vuole, anche il crooner contemporaneo Gli Arctic Monkeys non hanno bisogno di chissà quali mezzi e mezzucci per lasciare di stucco i fan.

Non è musica da fuochi d’artificio, quella della band partita da un garage di Sheffield e arrivata a vendere 12 milioni di copie in tutto il mondo: è musica che seduce, caratterizzata da .un’arroganza tipicamente brit ma declinata in chiave fighetta. E pop. Il gran finale con “I bet you look good on the dancefloor”, dall’album d’esordio del 2006, ricorda di quando da perfetti sconosciuti si ritrovarono a diventare in pochissimo tempo la band inglese più influente della propria generazione, grazie soprattutto a Internet e al passaparola dei fan. “R U mine?”, mentre qualcuno si avvia già verso le uscite, è l’affronto definitivo, che vede il gruppo spingere con la sua versione più vigorosa, in una tirata finale fino all’ultimo respiro.



SCALETTA:

“Sculptures of anything goes”

“Brianstorm”

“Snap out of it”

“Don’t sit down ‘cause I’ve moved your chair”

“Crying lightning”

“Teddy picker”

“The view from the afternoon”

“Four out of five”

“Why’d you only call me when you’re high?”

“Arabella”

“Fluorescent adolescent”

“Perfect sense”

“Do me a favour”

“Cornerstone”

“There’d better be a mirrorball”

“505”

“Do I wanna know?”

“Body paint”

“I wanna be yours”

“I bet you look good on the dancefloor”

“R u mine?”