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Paolo Meneguzzi: "Oggi sono in pace con me stesso"

Paolo Meneguzzi: "Oggi sono in pace con me stesso"
L'intervista, 20 anni dopo "Verofalso": "Ecco perché mi sono fermato, ecco come sono ripartito".

Di Mattia Marzi

Arriva un momento, durante l’intervista, in cui il tono di voce di Paolo Meneguzzi si fa improvvisamente serio. Accade quando il cantante di origini svizzere da oltre 2 milioni di copie vendute in tutto il mondo e 15 Dischi di platino collezionati con le sue hit nella manciata di anni compresi tra il 2001 e il 2008 - ai tempi in cui i dischi si vendevano e non si ascoltavano in streaming -, che oggi ha 46 anni, vive lontano dai riflettori e mentre non rinuncia a frequentare le sale di incisione (“Ho almeno due album completamente finiti. Mai pubblicati. Per scelta”, sottolinea) dirige un’accademia in Svizzera (la PopMusicSchool, “con più di 600 allievi”), si lascia andare a una riflessione amara sul prezzo del successo: “Mi sono ritrovato ad essere famoso a 19 anni. Il successo fu da una parte un sogno, dall’altra una gabbia. Per sedici anni la mia vita è stata irreale. Nel 2012 ho deciso di prendermi una pausa per stare vicino a mio papà, che stava lottando contro una malattia. In quei mesi ho ritrovato paradossalmente la vita. E ho capito che mi piaceva. Ho riscoperto quella normalità che avevo perso, insieme agli amori e le amicizie”, dice. E subito dopo aggiunge: “Il successo mi aveva strappato via i migliori anni della mia vita. Quando ho visto 'True Stories', il film su Avicii (il dj e produttore svedese morto suicida nel 2018, a soli 28 anni, ndr), mi sono detto: ‘Ho rischiato di fare la sua fine’”.

Hai davvero pensato di suicidarti?
“Suicidarmi magari no. Non lo so. Ma lo stress che avevo accumulato era veramente tanto. Ho rischiato il burnout, di svegliarmi la mattina e chiedermi: ‘Dove sono? E perché sono qui?’. Ho vissuto una crisi”.

Come ne sei uscito?
“Fermandomi. Non avevo necessità di continuare a fare un disco all’anno. Mi sono staccato da quello che era stato, fino ad allora, il motore della mia musica, il mio produttore Massimo Scolari, il primo a credere in me. Sapevo che sarebbe morta per sempre una parte di me, quella più vicina al business. Ma l’ho accettato. Ero saturo”.

Con Scolari, che ti scoprì nel 1994 e con il quale dividesti i frutti dei tuoi principali successi, da “Verofalso” a “Musica”, i rapporti oggi come sono?
“Continuiamo a volerci bene, perché sappiamo di aver costruito qualcosa di importante insieme. Ma per me era diventato necessario recidere quel cordone ombelicale, in quella fase della mia carriera. Scolari era diventato nel frattempo l’editore di GayTv. Nell’ambiente giravano chiacchiere e voci che non mi facevano bene e che facevano perdere di credibilità alla mia musica”.

In che senso?
“Critici e addetti ai lavori dicevano che scrivevo canzoni finte. Mi sentivo trattato come uno che faceva roba di serie b, se non di serie c. Mi consideravano il progettino di marketing messo in piedi da un imprenditore. Ma è tipico della musica pop che dietro a un progetto ci sia un grosso investimento”.


Icona degli Anni Duemila ti piace come definizione o pensi che sia riduttiva?
“È riduttiva. Se non altro perché la mia storia è iniziata prima di ‘Verofalso’, anche se è stata a lungo ignorata. Quando uscì quella hit mi appiccicarono addosso l’etichetta di ‘clone di Tiziano Ferro’. Mi feriva. Nessuno sembrava volersi accorgere di quello che c’era stato prima”.

Nel 1996 provasti a presentarti in gara a Sanremo con “Aria’ Ario’”. Ti scartarono. Poi con la stessa canzone ti presero in gara al Festival di Vina del Mar, in Cile. E fu un trionfo. Nel pop di oggi, tra algoritmi e quant’altro, c’è spazio ancora per storie di questo tipo?
“Temo di no. Quando nel 2001 finalmente mi presero in gara a Sanremo, tra i giovani, con ‘Ed io non ci sto più’, in patria ero un perfetto sconosciuto, ma in Sud America avevo già venduto un milione di copie”.

Elodie l’anno scorso ha “riabilitato” il pop di Paola & Chiara, altre protagoniste degli Anni Duemila. Chi ha raccolto il testimone di Paolo Meneguzzi, tra le star del pop italiano di nuova generazione?
“Nessuno. Non vedo più scene di grande fanatismo come succedeva negli Anni Duemila. Quelle che ho vissuto io in prima persona dal 1996, tra gente che si fiondava nella mia auto, fan che distruggevano i metal detector in aeroporto, appartengono ad un’altra era. In Sud America raggiunsi livelli quasi da Beatlemania”.

Addirittura?
“Non voglio esagerare. Alloggiavo negli stessi hotel dei Backstreet Boys, quando facevamo il tour dei festival. Nel 1998 ricevetti un fax della Warner, che mi promuoveva nei paesi latini. Recitava: ‘Priorità mondiale, Paolo Meneguzzi e Madonna’”.


“Verofalso” come nacque?
“Era esplosa da qualche mese ‘Xdono’ di Tiziano Ferro. Decisi di provare anche io a fare un giochino del genere”.

Allora l’etichetta di “clone di Tiziano Ferro” non era così fuorviante.
“Avevamo in comune il background musicale, l’r&b americano, tra Tlc, Usher e Destiny’s Child. Io quelle sonorità le avevo già esplorate nel mio primo album in spagnolo, ‘Por amor’, sette anni prima. E quel pezzo non lo volevo neppure, nel disco. Mi sembrava troppo pop, macchiettistico”.

“La rivalità tra me e Tiziano Ferro? Eravamo antagonisti perché dovevamo esserlo, non eravamo davvero in competizione”, dicesti. I rapporti tra voi due com’erano, all’epoca?
“Con Tiziano non ho mai avuto niente a che fare. Però l’ho sempre stimato, anche quando si spostò dall’r&b alle melodie italiane. Io non ho mai tradito la mia natura, che è sempre stata molto filo americana”.

Cosa accadde quando nel 2004 ti ripresentasti a Sanremo, stavolta tra i big, con “Guardami negli occhi (prego)”?
“L’etichetta che distribuiva i miei dischi (la BMG Ricordi, ndr) decise di non includere il mio brano nella compilation ufficiale del festival, nell’anno del boicottaggio da parte delle case discografiche della kermesse, che non condividevano le idee della direzione artistica (affidata a Tony Renis, ndr) e impedirono ai big di candidarsi alla gara. Nella settimana del Festival decidemmo di convocare una conferenza stampa per attaccare la scelta dell’etichetta. Oggi posso dirlo: era tutto coordinato”.

Cioè?
“Era un’operazione di marketing, fatta bene. Faceva comodo a tutti. E infatti quell’anno si parlò solo di me. Non vinsi, però arrivai quarto. E la canzone fu un tormentone per mesi”.


Del tuo disco americano del 2008, “Música”, supportato dall’etichetta di Ricky Martin, la RM Entertainment, non si sentì parlare molto, invece. Anche se fino ad allora solo due italiani, Laura Pausini ed Eros Ramazzotti, erano riusciti a legarsi al mercato statunitense. Sempre colpa dello snobismo degli addetti ai lavori?
“Sì. Ricordo che mi chiamò l’internazionale di Sony Music, entusiasta. Fu un successo pazzesco, per me. Forse però per Ricky Martin non andò come sperava: dev’essere stato un grosso investimento economico. Il rapporto si concluse lì”.


Torneresti in gara all’Eurovision per rappresentare la Svizzera, come nel 2008 con “Era stupendo”?
“No. Non faccio più parte di quella schiera composta da personaggi che provano e riprovano ogni anno ad avere la loro occasione. Motivo per il quale non mi presento neppure più a Sanremo”.

L’ultima volta che ci hai provato quando è stata?
“Sette anni fa, credo. Dopo quel ‘no’ mi sono detto: ‘Basta’”.

Come mai non hai mai fatto un concerto in uno stadio?
“Perché all’epoca non c’era la corsa all’hype che c’è oggi. Nemmeno Jovanotti faceva gli stadi: solo Vasco e Ligabue. Io facevo le feste nelle piazze del sud Italia, a ingresso gratuito perché i promoter ritenevano che non avessi un pubblico di paganti: però arrivavo a fare anche a 40-50 mila presenze a sera. Avevo un repertorio di una trentina di hit. Chi le ha, oggi, trenta hit?”.

Non hai provato, in questi anni, a bussare alle porte di qualche etichetta?
“No. Quando uscii dal contratto con la Sony nel 2012 con l’ultimo greatest hits non cercai più un contratto discografico: feci da me. L’album ‘Zero’, uscito nel 2014, è stato pubblicato sugli stores digitali solo l'anno scorso, per scelta mia: ho fatto scelte bizzarre e un po’ fuori dai giochi, consapevolmente. Facendo uscire musica in rete per i fan solo occasionalmente”.

La musica, l’arte più in generale, che posto occupa oggi nella tua vita?
“Mi piace seguire i progetti da dietro le quinte, senza metterci la faccia. Con i ragazzi della mia accademia abbiamo appena finito di girare un film: uscirà a settembre. Si tratta di una produzione importante e costosa, per la quale si sta anche valutando la messa in onda sotto forma di serie tv sulle più importanti piattaforme. Alcuni talenti della scuola si sono presentati anche ai provini dei talent. Come Le Ragazze Punk, una girl band che fa musica stile k-pop. Si sono presentate a X Factor, ma non posso dire se sono entrate o meno”.

Oggi chi è Paolo Meneguzzi?
“Un uomo risolto. In pace con sé stesso. Oggi più che mai il mio centro sono mio figlio Leonardo, che ha 7 anni, e mia moglie Linda, conosciuta nel 2006 e sposata dieci anni dopo”.