MUSICA




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Blanco, la trap e l’incomunicabilità tra generazioni

Blanco, la trap e l’incomunicabilità tra generazioni


Il trapper bresciano arriva negli stadi ma non si capisce una parola di ciò che canta. Cercare di essere compresi da chi non parla lo stesso slang non è evidentemente una necessità. Forse è solo un modo diverso di ‘ammazzare i padri’. E ogni epoca ha la controcultura che si merita.

Blanco tiene il suo primo concerto allo stadio Olimpico di Roma, diventando coi suoi 20 anni l’artista più giovane a aver mai calcato quel palco. A leggere i commenti sui social, a parte quelli entusiasti dei tanti e tante ragazzini e ragazzine accorsi per ascoltare il proprio beniamino, sembrerebbe che i genitori che li accompagnavano, a loro volta tanti, seppur lo stadio fosse lontano dall’essere pieno, non abbiano letteralmente capito una parola di quelle cantate dall’artista bresciano. E non certo per una questione geografica, Blanco, come buona parte dei suoi coetanei e più in generale dei cantanti della nuova generazione, tende a usare uno slang di difficile comprensione, e a mangiarsi buona parte delle sillabe, si pensi a Madame, per dire, ma anche a uno qualsiasi dei trapper.


Tra Zeta, Alpha e nativi digitali è ormai il caos generazionale
La prima volta che molto probabilmente avete sentito parlare di Generazione X è stata con la pubblicazione del primo romanzo di Douglas Coupland, uscito nel 1991. In realtà il termine esisteva già, ma è in quel preciso momento, con questo libro, che si comincia a parlare di Generazione X per i nati tra il 1965 e il 1980. Generazione successiva alla generazione dei cosiddetti Baby Boomer, i boomer ormai divenuti popolarissimi grazie ai vari meme che costellano i social, nati a cavallo della Seconda Guerra mondiale e che del boom economico erano stati artefici o comunque avevano beneficiato. Le generazioni, così ci avevano spiegato a scuola, si alternavano ogni 25 anni circa, in sostanza il lasso di tempo nel quale una persona divenuta adulta potesse diventare genitore, ma non avevano nomi esotici, a parte forse la Lost Generation che Hemingway ha raccontato in Festa mobile. Come a voler dare un senso al sottotitolo del romanzo di Coupland, “racconti per una cultura accelerata”, da quel momento i tempi tra una generazione e l’altra hanno cominciato ad assottigliarsi, al punto che oggi si parla di generazioni anche a distanza di cinque, sei anni. Dopo la Generazione X, infatti, c’è stata la Y, meglio nota come quella dei Millennials, coloro che in pratica sono diventati maggiorenni intorno al 2000, per poi dare spazio alla Generazione Z, o Centennials, cioè i nati tra la fine dei 90 e gli Anni 10 del nuovo millennio, seguita dalla Generazione Alpha che ha negli attuali 12enni i rappresentanti più ‘anziani’. Metteteci poi i nativi digitali e davvero il quadro d’insieme si fa sempre più confuso, sia per chi di queste categorie fa parte, ma tanto più di chi ne è semplice spettatore. Non dovrebbe del resto sorprenderci che oggi, nell’era di TikTok e dei social, ci sia una categoria di bambini che viene già indicata come una precisa generazione. Non a caso sono loro il target più vezzeggiato dall’industria dell’intrattenimento. Pensate al cinema, tra Pixar, Marvel e Me contro te. E non è un un caso che il video con più views della storia, oltre nove miliardi e mezzo e in continua crescita, sia quella Baby Shark che un tempo avrebbe potuto ambire al massimo a vedersela con Le tagliatelle di Nonna Pina e Il coccodrillo come fa.


I 15 minuti di notorietà di Warhol si sono ristretti a 15 secondi
Nel 1968, quando internet non era ancora stata inventata né predetta dagli scrittori di fantascienza e quando a dirla tutta ancora l’uomo non era neanche andato sulla Luna, sempre in tema di fantascienza, Andy Warhol ebbe a dire la famosa massima su un futuro prossimo nel quale chiunque avrebbe potuto ambire a 15 minuti di notorietà. Ignorava, l’artefice più pop della popart, che quei 15 minuti sarebbero stati decisamente troppi rispetto ai canoni iperaccelerati che TikTok, oltre 50 anni dopo, avrebbe imposto: 15 secondi e via, chi c’è c’è. Tutto a portata di giovanissimi, la Generazione Alpha di cui sopra, al limite la Generazione Z, sempre che non siano già troppo vecchi. Una sorta di strapotere infantile, a discapito dei numeri che vogliono, almeno in Italia, le generazioni più anziane assai più popolate di quelle degli adulti di domani, e anche a discapito di una inesistente capacità economica di chi, evidentemente, non lavora, quindi non guadagna. In questa iperaccelerazione che ha letteralmente reso la realtà evaporata, frammentaria – altro che Bauman – la soglia di attenzione è ridotta sempre più all’osso e la capacità e anche voglia di approfondire sono ai minimi termini. La tendenza è guardare a se stessi e al proprio gruppo/generazione di appartenenza in maniera assolutistica, come se il nostro mondo fosse il mondo e basta, finendo per non riuscire più neanche a concepire un confronto col passato, quindi con chi c’è stato e ancora c’è da più tempo di noi. Si accusano le altre generazioni di non comprendere, in questo sì potremmo ravvisare una trasversalità comune, si addossano a chi è venuto prima le colpe di un presunto disagio presente o futuro, si tende a liquidare ogni critica come una calcificata impossibilità di mettersi nei panni degli altri.

La trasformazione della lingua e l’appiattimento sul parlato
Lasciamo momentaneamente da parte le generazioni, e parliamo di linguaggio. Nel Dopoguerra, di pari passo con l’invenzione dei giovani (leggetevi l’omonimo libro di Jon Savage, a proposito, L’invenzione dei giovani, edito da Feltrinelli) come categoria di riferimento del marketing, coi loro desideri e quindi le loro necessità che sarebbero presto diventati prodotti per il mercato, in Italia è iniziata una operazione di diffusione di massa dell’italiano come lingua comune, questo anche grazie alla televisione, ricordiamo il programma del maestro Manzi, Non è mai troppo tardi, andato in onda dal 1060 e il 1968. Fino a quel momento l’italiano era lingua per pochi eletti, della borghesia, e quella delle istituzioni. La gente comune ne parlava una versione geograficamente connotata, dialettale. Con la televisione la lingua si è diffusa e ha attecchito. Questo ha fatto sì che, col tempo, la lingua formale abbia cominciato a cambiare, divenendo sempre più simile a quella parlata. L’influenza della lingua dei media ha reso lo scritto sempre più simile all’orale. Tutti abbiamo iniziato a parlare una lingua nuova, e così quella lingua nuova è finita dentro i libri, dentro le canzoni, ovunque. Chiaramente coi social media questa accelerazione ha avuto un’impennata, lasciando che la lingua dei nostri padri, ottocentesca, finisse per uscire definitivamente di scena. Prendiamo ora la musica. E nello specifico la forma canzone. Mai come oggi le liriche delle canzoni attingono dal parlato, un parlato in un codice slang, come del resto succede un po’ in ogni contesto, almeno in ogni contesto che non sia quello statico dei verbali stradali o delle circolari ministeriali. Un tempo si leggevano libri scritti anche nell’Ottocento e li si leggeva così come erano stati scritti, non certo tradotti in un linguaggio più contemporaneo. Erano comprensibili a tutti. A scuola, nei temi, si usava una lingua piana, che non era certo la medesima che si usava oralmente. Di conseguenza esisteva un linguaggio per ogni situazione. Oggi si tende a spalmare su tutto, e quindi a omologare, una lingua unica, che diventa la medesima che si usa sui social, nei temi in classe, negli articoli come nelle canzoni. Una lingua fortemente orientata verso il parlato, quasi uno slang che, ovviamente, è incomprensibile a chi non fa parte della cerchia che quello slang ha creato. Capita così di ascoltare tracce trap di cui non si comprende una singola parola. E non si parla di Thasup che si è inventato letteralmente una lingua propria, sia chiaro.


Ogni epoca ha la controcultura che si merita. E oggi abbiamo Blanco in mutande Calvin Klein
Cercare di essere compresi da chi non parla la stessa lingua non è evidentemente una necessità di chi adotta questa forma. La quasi totalità dei cantanti trap cercano di comunicare ai coscritti, tagliando fuori tutti gli altri. Forse è solo un modo diverso di ammazzare i padri, quella forma di contestazione che proprio nel 1968, quando Andy Warhol parlava di un futuro anche troppo ottimistico, il maestro Manzi riteneva ormai concluso il suo lavoro di alfabetizzazione della nazione e la rivolta giovanile trovava la sua prima incarnazione nelle barricate parigine. Ogni epoca ha la controcultura che si merita, si potrebbe chiosare. Oggi abbiamo Blanco in mutande Calvin Klein che si mangia le sillabe prendendo a calci le rose (del pane, al momento, nessuna notizia). Prossima tappa a San Siro il 20 luglio, gli adulti portino il traduttore simultaneo.