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La musica di Mike Francis è ancora un antidoto al pop usa e getta

La musica di Mike Francis è ancora un antidoto al pop usa e getta
Il successo di "Survivor", la svolta, il riscatto: storia della mosca bianca della dance italiana.
La musica di Mike Francis è ancora un antidoto al pop usa e getta

Di Mattia Marzi
Per la musica pop italiana Mike Francis è un fantasma.

C’è, ma non si vede. Di tanto in tanto qualcuno si degna di ricordarlo con qualche articolo monografico (come questo), magari a ridosso di anniversari o ricorrenze. Qualche radio nostalgica si ostina a passare un paio di suoi successi, “Survivor” e “Together” su tutti, inseriti in mezzo ad altre iconiche hit di quel decennio magico e irripetibile che furono gli Anni ’80. I fan possono dirsi fortunati se riescono a beccare a notte fonda in una puntata di “Ieri e oggi in tv”, il programma che mette insieme spezzoni di trasmissioni musicali tratte dall’archivio Mediaset, qualche esibizione del cantautore romano ad Azzurro o al Festivalbar. Per il resto Mike Francis sembra non essere mai esistito. Nessun artista di nuova generazione lo cita tra le sue fonti di ispirazione, neppure chi al mix tra cantautorato, pop, soul e elettronica che rappresentò il marchio di fabbrica di quello che è stato senza ombra di dubbio .uno dei principali protagonisti della new wave e dell’Italo disco degli Anni ’80 deve molto, da Ghemon e Ainé in giù (in compenso una colonna della scena hip hop italiana come Bassi Maestro in “All 4 your love”, uno dei singoli del suo nuovo progetto North of Loreto, non ha mancato di riconoscere il debito nei confronti di Mike Francis). “Survivor”, la sua più grossa hit, 8 milioni di copie vendute a livello mondiale, su Spotify conta poco più di 2 milioni di streams.

Forse è il suo karma, quello di essere l’escluso della storia della musica italiana degli ultimi quarant’anni (tanti quanti ne compirà l’anno prossimo la stessa “Survivor”). Sottovalutato quando era in attività, anche per via di quel carattere schivo e refrattario che gli imponeva di evitare ogni forma di divismo. Dimenticato da morto. Non per chi ha amato la sua musica e continua a custodire e ad ascoltare i suoi 45 e 33 giri, produzioni a loro modo avveniristiche e rivoluzionarie: unendo la forma canzone ai ritmi da discoteca, con quel suo stile soft, mai urlato, Mike Francis fu l’anello di congiunzione tra la musica dance e la canzone d’autore. Conquistando un seguito di cultori paradossalmente più all’estero che in Italia.





Oppure no: forse il contrario. “Forse mi chiamano più Mike Francis qui in Italia che all’estero: quando sono a Londra mi chiamano Francesco”, sorrideva lui in una vecchia intervista su YouTube, realizzata qualche anno prima della sua prematura scomparsa, a soli 47 anni, a causa di un tumore ai polmoni. Era il 2009. Quel nome d’arte che aveva scelto di adottare negli anni in cui qualunque progetto musicale che per i discografici avesse ambizioni internazionali doveva necessariamente avere un nome anglofono o esterofilo (nel 1983 Fabio Roscioli, aka Ryan Paris, scalò le classifiche internazionali con “Dolce vita”; nello stesso anno Paul Mazzolini, aka Gazebo, con “I like Chopin” si spinse fino nella top ten giapponese; nel 1984 sarebbe stato il turno di Raffaele Riefoli, aka Raf, e della sua “Self control”, from Barletta to the World), lo aveva in qualche modo cancellato già da qualche anno. Così come il suo passato. Dedicando tutte le sue energie dalla fine degli Anni ’90 a un nuovo progetto, i .

Mystic Diversions , fondati insieme al fratello arrangiatore, compositore e ingegnere del suono Mario Puccioni e al polistrumentista maltese Aidan Zammit, modificando il suo nome d’arte in Francesko: “È proprio quello il motivo per cui oggi uso così poco il mio vecchio nome d’arte - confessò nel 2006 a Rockol in un’intervista - alla gente viene spontaneo associarlo a un tipo di musica che mi sono lasciato completamente alle spalle. E anche se ho un rapporto sereno con il mio passato, non ho nessuna nostalgia per quegli anni. Li ho sempre considerati poco creativi dal punto di vista musicale e non condivido l’opinione di chi dice che in quel periodo sono usciti grandi dischi . Tutti facevano un uso smodato dei computer, col risultato che la musica suonava troppo fredda e pulita”.
Quella del Mike Francis dell’ultimissimo periodo era una disillusione lucida, immune da qualsiasi forma di frustrazione, di inappagamento, di insoddisfazione: d'altronde quello che aveva ottenuto con “Survivor”, “Let me in” e “Together” era andato oltre ogni sua immaginazione, velleità, ambizione.



Fiorentino di nascita ma romano d’adozione (la musica faceva evidentemente parte del dna di famiglia: sua cugina era la cantautrice Grazia Di Michele), aveva iniziato a farsi conoscere nelle discoteche della Capitale - era nei club che, trent’anni prima di Spotify, si scoprivano le nuove sensazioni e le nuove realtà - e presto era entrato nel giro giusto, quello dei fratelli Pietro e Paolo Micioni, due istituzioni della scena della città: “Ho iniziato a suonare come una band, come fanno tutti gli appassionati di musica.

Avevo 13 o 14 anni. Suonavamo per gioco, facevamo concerti nelle scuole americane (lui aveva studiato all’istituto di studi americano di Roma, da qui la naturale predispoisizione a scrivere i testi in inglese, ndr). Facevamo cover degli Earth, Wind & Fire. Ero l’unico italiano. Al tempo nessuna delle case discografiche italiane produceva musica internazionale. Poi trovai questo dj e mi propose lui di fare questo disco. Fu presentato alle varie multinazionali e nessuna lo volle. Alla fine uscì con un’etichetta indipendente di Milano. Entrò in classifica da solo. Poi quando arrivò il successo, si interessò la Rca”, raccontava a proposito dell’epifania di “Survivor” in classifica. Un successo, quello del singolo del 1984, .partito “dal basso” grazie alla spinta dell’emittente romana Radio Dimensione Suono.



Erano gli anni della glam, dei primi videoclip (“Video killed the radio star”, cantavano i Buggle), dei giubbotti di pelle, dei paninari. Raf monopolizzava i juke box con “Self control”. Sandy Marton faceva ballare l’Italia, da nord a sud, con “People from Ibiza”. Scialpi conquistava le teenager con “Cigarettes and coffee”, Gazebo dopo “I like Chopin” ci riprovava con “Telephone mama”. Mike Francis, ricciolino, faccia pulita, sguardo coperto da un velo di malinconia, era diverso dagli altri.






Allergico al clamore mediatico, si definiva un “random, un casuale, sia nella musica che nella vita”. Sui palchi di rassegne come il Festivalbar e Azzurro o di fronte alle telecamere di Discoring sembrava quasi a disagio (tra le sue coriste aveva un esordiente Giorgia e Rossana Casale). Stava bene solo in studio di registrazione. “Survivor” fu un passepartout che gli spalancò le porte del successo internazionale, ma Francesco voleva dimostrare che oltre quella hit c’era di più : in album come “ Let’s not talk about it ” e “ Features ” (anticipato dal duetto con Amii Stewart su “Together”), spediti nei negozi dall’etichetta indipendente dei fratelli Micioni, la Concorde, tra soul, elettronica, pop e italo disco sintetizzò la sua visione della musica da discoteca degli Anni ’80. Testi in inglese come imponeva la moda dell’epoca, una voce calda, soft e melodiosa, pattern ritmici irresistibili. Un antidoto al pop usa e getta . “Nell’’85 cominciavano ad arrivare i primi software dell’Atari, che permettevano di registrare delle sequenze. Prima se ti servivano dei ritmi fissi ti servivi di un batterista. Regustravi su nastro 4-8 battute, le mettevi ad anello sul Revox, facevi uno stereo che girava in continuazione e quell’anello poteva durare 5 o 6 minuti. Altirmenti usavi la Lynn (una batteria elettronica, ndr)”, raccontava del suo approccio alla musica e di quella formula che gli aveva permesso di conquistare le classifiche anche fuori dall’Italia (curioso l’expoit nelle Filippine, dove nel 1990 registrò pure un album dal vivo, “Live in Manila”).





Nel 1991, sette anni dopo “Survivor”, aveva provato a partecipare al Festival di Sanremo incidendo in previsione anche un album in italiano con testi di Mogol (“Mike Francis in Italiano”). Lo avevano scartato. E lui, di tutta risposta, aveva deciso di fare un passo indietro rispetto al pop mainstream (ma tre anni dopo aveva riprovato a confrontarsi con testi in italiano con “Francesco innamorato”, affidandosi stavolta a Pasquale Panella). A Londra, dove aveva lavorato con Richard Darbyshire, leader dei Living in the Box e autore - tra gli altri - di Lisa Stanfield, aveva cominciato a immaginare quella che sarebbe stata la sua successiva avventura musicale, i Mystic Diversions, che avrebbe riscosso un discreto successo fra gli amanti della musica lounge e ambient e gli avrebbe consentito di diventare uno dei pochi reduci del boom musicale pop dance Anni ’80 ad essersi reinventato una nuova identità musicale negandosi al gioco un po’ patetico del revival .
A chi gli chiedeva se fosse interessato a partecipare a qualche reality show, come facevano altri colleghi della dance Anni ‘80, rispondeva: “No, per carità. Non mi ci vedo in quel tipo di programma. Sono un musicista e voglio fare solo musica”.