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“Raffa”, recensione: il corpo misterioso di Raffaella Carrà

“Raffa”, recensione: il corpo misterioso di Raffaella Carrà
Un documentario da 3 ore ne ripercorre la storia, senza scalfire il mistero di un idolo

Di Elisa Giudici

La constatazione più pungente su Raffaella Carrà, nel documentario che la racconta e la celebra, la fa Marco Bellocchio. Il regista di “Il traditore” e “Rapito”, che frequentò il Centro sperimentale di Cinematografia di Roma insieme a una Carrà giovanissima, mora e nota come Raffaella Pelloni, dice: “avessi fatto un film con lei, le avrei chiesto di dimagrire molto, in modo da far uscire gli occhi. Il corpo era stupendo, ma il volto… faceva fatica sui primi piani”.

Si fatica a crederlo, pensando ai primissimi piani con cui Gianni Boncompagni - compagno di lavoro e di vita, suo primo grande amore - la intrappolava in “Pronto, Raffaella?”, il programma degli anni ‘80 che tra salottino e conta dei fagioli le donò una seconda giovinezza televisiva, quando altre donne (Loretta Goggi, Heather Parisi) le sottrassero il ruolo di show woman del sabato sera. Ciò che “Raffa” fa particolarmente bene è spiegare come l’icona Raffaella Carrà sia stata il prodotto di decenni di tentativi, fallimenti, scandali e progressiva messa a fuoco della sua immagine. Quello che gli riesce meno bene è scalfire il mistero di Raffaella Pelloni, mancando di mettere a fuoco con precisione quanto di consapevole, calcolato e non casuale la rese la Carrà.

“Raffa” di Daniele Lucchetti è un documentario in tre puntate da un’ora ciascuna che si “trasforma” in lungometraggio per il suo passaggio in sala. Alla presentazione della pellicola il regista ha spiegato: “Mi piacerebbe che le persone vedessero questo documentario in sala, perché siamo abituati a pensare a Raffaella come un’icona del piccolo schermo, una diva della TV. Vederla spalmata su quaranta metri quadri di schermo in sala fa un’impressione differente.”

A Lucchetti è stato commissionato questo documentario omaggio; sfida che ha accettato volentieri, ricordando il turbamento che da bambino gli causava la visione del corpo, delle labbra di Raffaella Carrà. Il materiale di partenza era ovviamente sconfinato: migliaia e migliaia di ore di girato degli archivi Rai, dagli anni del “gran tradimento” a Mediaset, dal rifugio felice alla televisione spagnola.
Tante anche le testimonianze di conoscenti, amici e celebrità vicine a Raffaella, anche dal mondo della musica: spiccano Bob Sinclair e Tiziano Ferro.

Un folgorante inizio, tra ombre, dubbi e fallimenti
La storia di come Raffaella Pelloni divenne Raffaella Carrà viene raccontata come nel più classico dei progetti biografici, che via via scivola nell’agiografico. Narrato in rigoroso ordine cronologico, “Raffa” racconta gli inizi incerti di un’adolescente con le idee chiare sul suo futuro, ma segnata irreversibilmente dall’abbandono paterno e dal rapporto con una madre bellissima, inflessibile e molto critica nei confronti dell’aspetto della figlia. Una giovane ragazza che sogna il mondo dello spettacolo ed è fidanzata con un calciatore della Juventus, ma già pensa più in grande.

Lucchetti realizza un’ottima prima puntata ricca di ombre e dubbi, così come gli inizi della carriera di Raffaella. Il documentario ha un’apertura spiazzante in cui due dei capisaldi della carriera della showgirl vengono sminuiti: l’insegnante dell’accademia di danza (presso cui non sostenne l’esame da “studentessa libera”) ne boccia le caviglie deboli. Viene sottolineato impietosamente come il sogno di Raffaella Pelloni di diventare ballerina era destinato a rimanere tale, a causa dell’amatorialità della sua tecnica.

Respinta dalla danza, Raffaella si rifugia nel cinema e parte con la mamma verso Roma. Qui non riesce a far decollare la sua carriera, almeno fino a quando Frank Sinatra la vuole al suo fianco. Non è esattamente un colpo di fulmine, non dopo una ventina di provini. Carrà però lo conquista, finisce a Hollywood, vezzeggiata come una diva nascente. Qui emerge un’altra caratteristica della sua personalità: la fuga, lo scrollarsi di dosso situazioni di successo “facili”, castranti.

Soffocata dal divismo statunitense e dal sospetto di essere solo “la ragazza del capo”, Raffaella torna in Italia e ricomincia quasi da zero. Si conquista un’apparizione in TV, poi un programma da soubrette in un’epoca in cui le donne avevano “mera funzione decorativa”, gregaria.

È il 1969, Raffaella Carrà ha appena incontrato Gianni Boncompagni. Viene scelta come spalla per la conduzione di un programma RAI, nell’epoca dei censori e del pubblico benpensante. Lei chiede 3 minuti, 180 secondi di carta bianca, in cui sia lei al centro della scena.
Sceglie di ballare, scuote il corpo con energia elettrica, trascinante. Le sue caviglie deboli, la sua tecnica amatoriale dentro quella scatola non contano troppo. Conta il corpo che si muove sinuoso ricordando le movenze dei figli dei fiori, conta l’abbandono alla musica.

“Raffa” è la storia di un corpo
Nei suoi momenti migliori, “Raffa” è la storia di un corpo divenuto via via idolo pagano, scandaloso e desiderato, capace di lanciare messaggi in codice alle persone ***** d’Italia e al contempo consolare e tenere compagnia alle casalinghe durante la preparazione del pranzo.

Arrivano l’ombelico scoperto, il Tuca Tuca, i costumi sempre più sgambati e arditi, le canzoni sul sesso come gioco divertente e fluido. La stessa Carrà dice che il successo “è questione di buone rotule”, al fianco di Boncompagni che con lei improvvisa e scandalizza, rendendola l’apripista di una presa di parola giovanile che si affermerà in Italia solo più tardi.

Un corpo desiderato e parlante, una collaborazione artistica che trasforma il duo Carrà / Boncompagni in una fabbrica hit musicali: “Rumore”, “Tuca Tuca”, “Far l’amore”. Lucchetti intervista anche Bob Sinclair, che racconta l’immutato fascino della hit di Raffaella nella versione rimodernata e ipnotica, finita nel film premio Oscar “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino.

Il rapporto con l’Italia rimane rigido, diffidente. Quando si sente intrappolata da un’eccessivo successo o da troppe critiche, Raffaella fugge in Spagna, dove viene adorata incondizionatamente. Anche lì il suo corpo porta il vento del cambiamento: arriva che Franco è ancora vivo, ritorna con un paese divenuto democrazia che si dimostra più libero e palpitante di un’Italia irrigidita dagli anni di Piombo.

È Tiziano Ferro a introdurre la conquista del mondo di Raffaella Carrà, all’apice della sua carriera, negli anni ‘70. Regina della disco music che ha fatto sua ai suoi inizi, idolo e ossessione per tutto il sud America. Una storia che in Italia si conosce solo per riverbero, che le immagini raccontano fino a un certo punto. Folle oceaniche, deliri, isteria, gente che tenta di prenderle un capello per ricordo. Il corpo come idolo pagano, da adorare.

Un corpo che dà tutto sul palco: ogni concerto sposta un quantitativo faraonico di costumi e ballerini. Raffaella balla e canta senza sosta per ore, perdendo a ogni tappa 2 chilogrammi. Dorme esausta mentre l’assistente le sistema la tinta, dopo averla massaggiata e rinfrescata col ghiaccio.

“Raffa” scivola nella celebrazione
Gli anni ‘70 e poi gli anni ‘80 sono un periodo di profondo cambiamento per Raffaella. Purtroppo, dopo un primo ottimo episodio, Lucchetti sembra perdere la presa salda sul racconto, concedendo tante scuse, tante giustificazioni che fiaccano un racconto altrimenti potente, un mistero difficile da penetrare di un corpo in cui convivono una donna emiliana forte, “una miliardaria povere e pragmatica”, con un’icona planetaria di trasgressione e sensualità, fragile, gelosa, spaventata dall’abbandono.

Gli anni ‘80 sono un periodo di svolta, la fase due del corpo di Raffaella. Altri corpi iconici, tonici e scattanti conquistano il sabato sera - Heather Parisi, Loretta Goggi, Lorella Cuccarini. Alla Carrà viene chiesto di designare la sua erede, le viene rimproverato implicitamente di essere vecchia.
Lei invece si reinventa, grazie all’acume di Boncompagni: diventa la regina del mezzogiorno, il filtro delle emozioni del pubblico. Il corpo diventa il volto, che forse ora anche Bellocchio troverebbe interessante, filmico. Ci sono le prime rughe, ci sono occhi e labbra espressivi, mobili, intrappolati dalla regia in primissimo piano, mentre storie drammatiche stimolano la reazione di Carrà.

Sono i prodromi della TV verità, del reality, di Ambra Angiolini con l’auricolare. Raffaella però si affida sempre più a Sergio Iapino, compagno e ballerino divenuto regista. Un professionista fattosi da solo, che manca dell’intuito e della genialità di Boncompagni, ma abbonda in preparazione, disciplina.
È lui il burattinaio del nuovo corpo di Raffaella, è lui che la guida tra i drammi a lieto fine di “Carramba che Sorpresa!”, in cui la conduttrice cerca ammenda e catarsi dal suo abbandono mai risolto. Lui che nel documentario appare per mezzo minuto scarso e decide di non dire una sola parola sulla donna con cui ha condiviso decenni di vita privata e carriera.

C’è invece ampio spazio per il desiderio mai realizzato di una maternità, il “gran tradimento” del corpo di Raffaella Pelloni, che prova a fare un figlio quando è troppo tardi. La famiglia come sacrificio in una vita in cui le canzoni e i programmi sono prima figli, poi amanti di cui è gelosa.
Figli acquisiti ne ha tanti. Non poteva mancare una parentesi dedicata alla comunità ****** che racconta cosa è stata Raffaella a mezzogiorno, seduta sul divano di “Pronto, Raffaella?” vestita come di moda nei locali gay di Berlino, mentre accoglie Madre Teresa come ospite a sorpresa. Un segreto condiviso.


Questa parte è forse la più debole di “Raffa” ed evidenzia il limite principale del documentario: il corpo di Raffaella Carrà è ricco di testi e ancor più di sottotesti, che solo una certa parte d’Italia coglie. Quanto però era la mente, la Pelloni, a pensarli? Quanto di quell’immagine è il frutto di una sua decisione e quanto lo è delle straordinarie collaborazioni che plasmano e cementificano il suo caschetto biondo, gli abiti esagerati e trasgressivi?

È una domanda che nasconde una critica implicita, spesso mossa a Carrà, che il documentario fugge piuttosto che affrontare. C’è invece tutto il corpo di Raffaella Carrà in “Raffa”, che più procede e più scivola nel celebrativo. Manca però la mente, un mistero che il documentario intuisce e indica, ma sono sa proprio risolvere e nemmeno scalfire.

Tutto sommato è una mancanza comprensibile: è una produzione a caldo, sull’onda della commozione per la scomparsa di una figura chiave della cultura pop italiana. Tuttavia in questo paese abbiamo un vizio antico e mai superato: trattare con una certa sufficienza persone ancora in vita, “avere fretta di tirare giù gli idoli dai piedistalli” (vedi le accuse per i cachet stellari percepiti da Carrà da parte dei Radicali, gli articoli shock sulla scarsa cura per la madre Ines ricoverata in ospedale). Salvo poi santificarli quando passati a miglior vita.

“Raffa” accenna solo alla percezione critica della Carrà, alla condiscendenza con cui è stata trattata da corpo mosso dalle abili menti maschili dietro di lei, al fianco di lei. Si glissa sugli insuccessi, si tacciono passaggi fondamentali come il suo Festival di Sanremo del 2001, ricordato come un grande flop. A posteriori era il momento giusto di rivendicarlo, almeno dal punto di vista musicale. O magari di chiedere a Fiorello, che interviene come intervistato, perché lasciò Raffaella sola alla conduzione all’ultimo, quando il suo affiancamento era già stato ampiamente annunciato.

Di recente ho visto un ottimo documentario, “You don’t Nomi” di Jeffrey McHale. Si tratta di un film che ricostruisce la scalata di “Showgirls” di Paul Verhoeven da filmaccio inguardabile a cult cinematografico assoluto, in poco più di un ventennio. Il bello di quel documentario è che ospita una pluralità di voci dubbiose, critiche, non risparmia considerazioni taglienti rispetto al oggetto della sua indagine e del suo amore. A Lucchetti e all’Italia in generale, manca proprio questo: la capacità di raccontare chi è mancato anche nelle sue mancanze, nei suoi difetti.

Pelloni e Carrà sul loro corpo condiviso ne hanno sentite di tutte i colori, per tutta la vita. Per farne un ritratto vero, serve anche evidenziarne con brutale onestà limiti e difetti, esprimere dei dubbi, porsi delle domande. Senza quelle caviglie deboli e buone rotule, d’altronde, Pelloni mai sarebbe diventata Carrà.

Dove vedere “Raffa”? Al cinema dal 6 al 12 luglio e a seguire su Disney+.

Quanti episodi ha “Raffa”? 1 film in 3 capitoli. La durata totale è di 180 minuti.

Quando è uscito “Raffa”? 2023.