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Addio a Carmelo La Bionda, papà (uno dei due) della disco music

Addio a Carmelo La Bionda, papà (uno dei due) della disco music
Aveva 73 anni. Con suo fratello Michelangelo inventò la disco music italiana.
Addio a Carmelo La Bionda, papà (uno dei due) della disco music
Di Redazione
La disco music italiana perde uno dei suoi padri. È morto stamattina a Milano Carmelo La Bionda (a destra nella foto), ideale metà del duo dei La Bionda, composto insieme a suo fratello Michelangelo, che negli Anni '70 inventò la disco music italiana. Il musicista aveva 73 anni. Era malato da un anno.

I fratelli La Bionda, noti anche col nome artistico D. D. Sound. Sound, cominciarono a muovere i primi passi da autori, componendo brani poi interpretati da Mia Martini, Ornella Vanoni e Ricchi e Poveri, facendo di tanto in tanto anche attività da turnisti (nel 1975 suonarono le chitarre nell'album "Volume 8" di Fabrizio De Andrè). La prima esperienza da produttori discografici arrivò nel 1974, con l'incontro con Amanda Lear. "Disco bass", sigla della prima edizione a colori de "La domenica sportiva" (firmarono anche colonne sonore di film di successo, da "Chi trova un amico, trova un tesoro" con Bud Spencer e Terence Hill a "Bello mio, bellezza mia" con Giancarlo Giannini e Mariangela Melato), e "Burning love" furono i loro primi successi internazionali.



Nel 1983, un'altra svolta. Grazie all'incontro con i Righeira, con i quali scrissero e produssero "Vamos a la playa", "No tengo dinero" e "L'estate sta finendo".



Tutti citano la disco music, scrivendo dei fratelli La Bionda; pochi ricordano che Carmelo e Michelangelo, all'attività di autori e turnisti, avevamo affiancato anche la pubblicazione di due album molto belli in chiave folk-rock, "Fratelli la Bionda srl" (1972) e "Tutto va bene" (1975); nel secondo è contenuta "Ogni volta che tu te ne vai".


L'ultima intervista di Rockol a Carmelo La Bionda risale al 2020; con lui Claudio Cabona ha parlato della nascita e della produzione di "L'estate sta finendo" dei Righeira. Qui di seguito la riproponiamo.


Una coppia del gol d’altri tempi.

I La Bionda sono stati un duo musicale, formato dai fratelli Carmelo e Michelangelo La Bionda, capace di lasciare un’impronta significativa nel mondo della musica. Fondatori dei Logic Studios, padri dell’italo-disco e hitmakers letali, agli inizi degli anni ’80 iniziarono una fruttuosa collaborazione con i Righeira con cui scrissero “Vamos a la playa”, “No tengo dinero” e “L'estate sta finendo”: a 35 anni dall’uscita di quest’ultima, che il 17 e il 24 agosto del 1985 fu prima in classifica in Italia, abbiamo intervistato proprio Carmelo La Bionda, produttore e autore del testo insieme al duo di Michael e Johnson Righeira. Insieme a lui abbiamo riavvolto il nastro di quel successo senza tempo, ritornando in quelle stanze super tecnologiche, per quel tempo da cui tutto è partito. .

Che cosa ricorda di quegli anni?
Venivamo da un periodo di grandi successi. Erano passati due anni da ‘Vamos a la playa’, c’erano stati “No tengo dinero” ancora nel 1983 e ‘Hey mama’ nel 1984. Io e mio fratello abbiamo sempre lavorato in team, con musicisti italiani e stranieri, questa è sempre stata una delle nostre caratteristiche principali. Era primavera quando nacque “L’estate sta finendo”, un pezzo che richiese diversi mesi di lavorazione per essere lanciato con l’arrivo della stagione più calda. I tempi lunghi non erano una novità: ‘Vamos a la playa’, in tutto, di mesi ne richiese sei.

Il punto di partenza?
Il problema non era realizzare una bella canzone, noi volevamo un altro successo. Mi ricordo molto bene il team di lavoro, avevamo appena aperto i nostri nuovissimi Logic Studios in Via Quintiliano 40, a Milano. Era la prima volta che lavoravamo interamente in Italia, sempre in sinergia con artisti stranieri come Herrmann Weindorf, un genio assoluto. Passava dal comporre melodie per le orchestrine dell’Oktoberfest a canzoni scritte per orchestre famose in tutto il mondo. Nel team c’era anche Rocco Tanica, che si avvicinò a noi in modo curioso: era amico di Lu Colombo, famosa per la hit ‘Maracaibo’. Fu lei a presentarcelo.

I Righeira? Sono loro, insieme a lei, gli autori della canzone.
Johnson Righeira mi offriva qualche spunto su cui muovermi e io lavoravo. ‘Vamos a la playa’ nacque da un embrione che avevamo preparato per un programma televisivo, mentre ‘L’estate sta finendo’ ha avuto la sua genesi in un pezzo che mi fece ascoltare Johnson con una melodia molto anni ’60, che però doveva essere implementata e caratterizzata. Con Weindorf lavorammo sodo, mio fratello fece un’opera di rifinitura incredibile e dopo diversi mesi, quando il direttore vendite a cui presentammo il pezzo sorrise, capimmo che avevamo davvero qualche cosa di importante fra le mani. In quegli anni le reazioni emotive dei direttori vendita erano dei verdetti.

Il brano ha anche una vena malinconica.
Anche ‘Vamos a la playa’ racconta di una spiaggia postatomica. Io ho scritto l’inciso, sono quello che ha reso ‘L’estate sta finendo’ più allegra, la strofa invece è di Johnson. Lui è torinese, è un malinconico, era normale desse quel tipo di linea al pezzo. Il contrasto finale che regge il brano è magnetico, ha rotto sin da subito il paradigma della classica canzone estiva. Non parlavamo di gelati alla crema come facevano in tanti in quegli anni, il nostro gusto era un po’ più amaro. Alle persone è piaciuta per questo.

La versione più lenta?
Si chiama ‘Prima dell’estate’, l’avevamo inserita nel lato b dell’Lp. Rocco Tanica suonò il piano. In quella versione abbiamo mantenuto di più il mood anni ’60 da cui eravamo partiti.

Perché per realizzare una canzone un tempo si impiegavano mesi, mentre ora non è più così?
Noi lavoravamo come ci ha insegnato Giorgio Moroder: inseguendo novità. Oggi temo non ci sia più quella passione: ogni tanto spunta qualcuno che osa, ma poi tutti gli altri, invece di alzare ancora l’asticella, vanno dietro a chi ha azzeccato il primo successo. Nel rap o nel reggaeton di oggi è così. Attualmente esistono grandi produttori che tutto sanno e fanno, realizzano importanti arrangiamenti, ma difficilmente lavorano in team allargati. Noi eravamo convinti che non bastasse un’illuminazione, ma che servisse un lungo lavoro di squadra per ottenere dei risultati.

Mai un litigio?
Mai. Se si stabiliscono bene i ruoli non può accadere.

Eravate un’alternativa al cantautorato più classico?
Ne sono convinto, anche se soffrivamo quando venivamo definiti “musica di serie B”.

Chi lo faceva poi andava in pista a ballare i nostri pezzi. Inoltre sono certo che il nostro modo di fare elettronica abbia liberato la voglia di far musica. Mi spiego: prima dell’arrivo della tecnologia, chi aveva grandi idee non poteva realizzarle se non affidandosi a musicisti di spessore. Con i sintetizzatori e i campionamenti è cambiato tutto: si risparmiava e si poteva partire da una base solida indipendente. Noi, i musicisti di spessore, alla fine li chiamavamo comunque, penso per esempio al sax di Claudio Pascoli. Con i nostri studi e le nostre macchine avevamo raggiunto un nuovo livello di libertà. .

Rimpianti?
Non abbiamo avuto grandi artisti per rendere internazionali quelle melodie. Da noi non sono cresciuti dei Depeche Mode come in Inghilterra, eppure come suoni non avevamo nulla da invidiare a nessuno.

I Depeche Mode, lei li ha conosciuti bene.
Sì. Dopo aver fondato i Logic Studios di Milano, negli anni successivi, in quegli spazi ospitammo artisti di fama mondiale come Ray Charles, Robert Palmer, Paul Young. I Depeche Mode proprio lì registrarono “Violator”, che contiene “Personal Jesus”. Me li ricordo come persone molto riservate. Nella nuova sede degli studi, quando dopo il 1998 ci spostammo in via Piacenza, sempre a Milano, arrivarono da noi Laura Pausini, Nek, Alessandra Amoroso, Rihanna, i Pooh, i Simple Plan e tanti altri. Fu una rivoluzione: per la prima volta, in Italia, esistevano degli studi interessanti anche per super star straniere.

Perché chiusero?
Vinse, con il tempo, l’effetto “cinese”. Tutto veloce e a poco prezzo, la nuova linea degli studi era quella. Noi eravamo diversi, destinati a chiudere in un mondo che privilegia l’“usa e getta” rispetto alla qualità.