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Roberto Vecchioni: canzoni da figlio, canzoni da padre

Roberto Vecchioni: canzoni da figlio, canzoni da padre
Il cantautore milanese compie oggi 80 anni

Di Redazione

“Che c’eri sempre quando tornavo o non tornavo e mi leggevi negli occhi se avevo bevuto, cantato, fatto l’amore o girato per Milano da solo di notte…” (“La vita che si ama”, Einaudi). Se la letteratura è certamente uno dei nodi principali al quale la poetica di Roberto Vecchioni (che oggi compie 80 anni) si è legata e da lì dipanata, è facile rintracciare un filo altrettanto robusto e forte in tutti i suoi album in studio: quello che racconta di amori immensi e allontanamenti disperati, tra padri, madri e figli.

“Un professore di liceo che finora ha fatto solo l’autore di canzoni”: viene presentato così Roberto Vecchioni alla sua prima volta sul palco del Festival di Sanremo, nel 1973. Questo è uno dei brani cardine della discografia del cantautore milanese, ci si trova dentro il seme di quello che sarà, in tutti i dischi a venire, il racconto della relazione genitore-figlio, una distanza di tempi e spazi mai di sentimenti, la contrapposizione di due vite così diverse per quotidianità quanto simili, uguali spesso, per emotività, l’unione così complementare tra i due da farsi presa di distanza dal mondo esterno, la dolce indulgenza che non è mai rabbia ma sempre comprensione per la figura genitoriale e per i suoi errori.


“Ninni” (“Calabuig, stranamore e altri incidenti”, 1978)

Un immaginario incontro nel vagone di un treno del Roberto del ’78 con i suoi genitori giovani e i figli piccoli, con il lui bambino, con il padre che “segnava i cavalli da giocare”, con la madre (“tu sei bella e mi guardi senza parlarmi, non ti sei neanche accorta di assomigliarmi”), come in un gioco dove il tempo ti dà la possibilità di tornare indietro e incontrarli allora, quando tutto doveva ancora essere, vedere com’erano, e guardare negli occhi tua madre per dirle che quel figlio che chiamava “Ninni” forse qualcosa della vita ora l’ha capita.

Che avrebbe voluto mollare mille volte ma che alla fine non l’ha fatto. In formazione in quel disco Lucio “Violino” Fabbri, che aveva iniziato la collaborazione con Vecchioni due anni prima per l’album “Elisir”.


“Per un vecchio bambino” (“Samarcanda”, 1977)

L’album è “Samarcanda”, e con Vecchioni ci sono musicisti come Tony Esposito, Mauro Paoluzzi, Angelo Branduardi. “Per un vecchio bambino” è forse tra i brani meno noti del cantautore: si torna a parlare del padre Aldo, alla sua memoria questa volta, rimproverato e redarguito come fosse un bambino - “e poi non obbedivi mai e combinavi sempre guai” - al quale il cantautore nella dolcezza di un gesto fatto mille volte, voltarsi attorno e non trovarlo più, si rivolge chiamandolo “bimbo mio”. Anche qui, come in “L’uomo che si gioca il cielo a dadi”, c’è indulgenza per gli errori commessi, c’è tenerezza, qualche rimpianto che la morte porta sempre con sé, e sembra continuare lo stesso dialogo del brano del ’73 perché, come dimostreranno altri brani posteriori, la distanza incolmabile che mette la morte tra due anime, quando queste sono quelle di un padre e un figlio, non vale.


“Madre” (“Montecristo”, 1980)

L’album è “Montecristo”, il disco della causa della Ciao Records e del ritorno del cantautore alla Philips; chicche musicali le presenze di Lucio Dalla (sax nel brano “La Strega”), e di Eugenio Finardi e Antonello Venditti (voci in “Montecristo”), la copertina di quell’album è di Andrea Pazienza. Il cantautore milanese torna ad immaginarsi, come in “Ninni”, come sarebbe potuta essere la madre da giovane, da ragazzina in questo caso, e quante e quali cose ha visto prima di averlo. Quasi come se Vecchioni parlasse solamente alla ragazza, alla donna che è stata e non alla madre, con la gelosia con cui si può parlare a un amore.


“Horses” (“Per amore mio”, 1991)

“Horses”, che apre il disco, ricorre alla metafora di un cavallo e un giovane puledro e di una loro corsa in campagna per raccontare di padri e figli. Il gioco, la sfida, il colore grigio della criniera del cavallo-padre, gli alberi lungo la cavalcata ad applaudire il loro passaggio, il puledro che fatica a stargli dietro, l’essere continuamente in bilico tra il continuare a imitare i suoi movimenti (assomigliargli) e cambiare totalmente strada, e l’invidia del mondo intero al quale gridare “ho corso insieme a mio padre”. Un padre qui che è forza, sicurezza, strada da seguire; quello che forse l’uomo che si giocava il cielo a dadi non era stato fino in fondo.


“Dimentica una cosa al giorno” (“Rotary Club of Malindi”, 2004)

Se si potesse davvero chiudere il cerchio di una vita con una canzone, se si potesse dare l’ultimo saluto a chi ci ha dato la vita con tutta la delicatezza esistente, ma nella compostezza di un dolore privato che viene cantato al mondo, se si potesse mettere su traccia l’amore per una madre, se ci stesse tutto dentro, se si potesse davvero fare, allora sarebbe certamente dentro questa canzone qui.


“Figlia” (“Elisir”, 1976)

Torniamo indietro nel tempo, al 1976. Vecchioni è diventato padre di Francesca, e questa diventa presto una delle canzoni manifesto del cantautore, una di quelle che dal vivo blocca i respiri, ferma il tempo, fa restare in silenzio e commuove. Perché è probabilmente tutto quello che una figlia sogna di sentirsi dire da un padre ed è tutto quello che un uomo vorrebbe saper dire alla propria figlia. C’è l’amore, il sogno, la ribellione, la forza di combattere per delle idee, una volta ancora c’è il sentirsi simili “così a volte guardo se ti rassomiglio” e perciò diversi dal mondo fuori, c’è quel senso profondo di appartenenza reciproca che supera qualunque ruolo e che dell’età e dell’esperienza se ne frega.


“Canzone da lontano” (“Montecristo”, 1980)

Non ha forse la forza emotiva di “Figlia”, è più una dolce ninna nanna, delicata e amorevole, ma tornano anche qui due elementi del brano del ’76. L’amore, che è sempre qualcosa di ingarbugliato, istintivo e senza ragione alcuna, se lì era “t’innamorerai senza pensare” qui diventa “e il vento ingarbuglierà i tuoi pensieri, l’amore e i tuoi capelli”; e il riconoscersi simili, uguali in mezzo agli altri: “il grillo ti racconterà che mi assomigli negli occhi e nelle stelle, e gli crederai”.


“Quest’uomo” (“El bandolero stanco”, 1997)

C’è il cantautore, l’artista, il viaggiatore, sempre su di un palco, con i concerti, i libri, le interviste, in un vortice continuo dietro alle proprie emozioni, come fossero davvero la sola cosa importante. E poi c’è l’uomo, il padre, fermo immobile dietro alla porta, alla porta di casa, il sigaro in mano ad aspettare. Cosa? Che i figli tornino. L’artista sul palco “a sbranare emozioni”, l’uomo buffo e ridicolo ad aspettare che tornino a casa. Tutto perde senso, quel “tutto” che è la vita del cantautore Vecchioni, sempre così intensamente vissuta, se anche uno solo dei suoi figli non è al sicuro, non è a casa, non è dove il suo sguardo può raggiungerlo.


“Figlio, figlio, figlio” (“Il lanciatore di coltelli”, 2002)

Il brano apre l’album “Il lanciatore di coltelli” al quale collaborò Mauro Pagani, curandone gli arrangiamenti. I primi due versi riportano alla mente il personaggio di “Velasquez” e il viaggio in nave del brano del ’76 (“Figlio chi ti insegnerà le stelle se da questa nave non potrai vederle?”) e quello di “Arthur Rimbaud” e le luci di Marsiglia “che non arrivan mai” (“Chi ti indicherà le luci dalla riva? Figlio quante volte non si arriva!”) e nel farlo sembrano quasi voler urlare la distanza tra il mondo del cantautore, salvato dalla letteratura e dalla poesia, e quello del figlio, che non crede più a niente. Torna anche qui uno dei nodi centrali della poetica padre-figlio vecchioniana: l’essere simili, l’assomigliarsi. È il padre, nella disperazione della incomunicabilità a chiedere come ultimo grido “dimmi dove ti assomiglio”.


“Le rose blu” (“Di rabbia e di stelle”, 2007)

Non è la prima volta che Vecchioni in una canzone si rivolge a Dio come a una persona in un dialogo diretto: due esempi sono certamente “Blumun” e “La stazione di Zima”. In entrambi i brani, del 1993 e del 1997, è l’uomo, il fortissimo umanesimo cardine di tutta la discografia del cantautore al centro di tutto: “quando ci vedremo mettimi in un posto con la donna e con gli amici miei/lasciami un buco per guardare in fondo/vorrei vedere qualche volta il mondo/il mio mondo” e “lasciami questo sogno disperato di esser uomo…guardami io so amare soltanto come un uomo”. Anche in “Le rose blu” sono al centro della preghiera l’uomo, la vita e tutti gli stupidi e bellissimi istanti che la riempiono, un padre che torna a casa, i figli che nascono, il suo viso, i baci di addio, le risate con gli amici, tutto quello per cui una vita può chiamarsi tale e non un inutile succedersi di giorni, tutto raccolto tra le mani come la cosa più preziosa dell’universo e offerto a Dio nell’ultimo disperato gesto, nella più umana delle richieste di aiuto: aiuto per un figlio malato. La vita, nella sua pienezza di giorni vissuti intensamente, barattata per il rifiorire delle rose blu, simbolo della salute del figlio più piccolo. Su di un palco il brano si fa teatro, improvvisazione, poesia del gesto (di cui Vecchioni è mago), una preghiera contemporanea che rinnova intensità ed emozione a ogni andata in scena.