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Dardust: oltre i tormentoni c’è di più

Dardust: oltre i tormentoni c’è di più
Ecco perché vale la pena assistere a uno dei concerti del "Duality tour" del Re Mida del pop.

Di Mattia Marzi

Su “Komorebi”, il secondo brano del terzo blocco del primo atto del concerto, il disco dorato che campeggia sullo schermo alle spalle di Dardust, seduto al pianoforte, comincia inesorabilmente a sgretolarsi, a disgregarsi, a sbriciolarsi sotto lo sguardo impassibile del musicista, fino a quando alla fine non rimane solamente la musica, senza il supporto di video o giochi di luce: è l’emblema della fuga di Dario Faini dal successo abbagliante dei Dischi d’oro e di platino, quelli che ha vinto e fatto vincere creando dal niente hit o rendendo hit canzoni che senza il suo tocco non sarebbero diventate successi da 500 milioni di streams complessivi: da “Riccione” dei Thegiornalisti a “Cenere” di Lazza, passando per “Soldi” di Mahmood, “Andromeda” e “Guaranà” di Elodie, “Malibu” di Sangiovanni, “Voce” e “Marea” di Madame, “La genesi del tuo colore” di Irama, “La coda del diavolo” di Rkomi, solo per citarne alcune.

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Guardi Dardust sul palco del ".Duality tour" - ieri sera ha fatto tappa a Roma, al Parco della Musica - e ti chiedi se quello seduto al pianoforte, che spazia senza soluzione di continuità da omaggi a Vivaldi a coraggiose rivisitazioni in chiave disco del barocco italiano, passando per citazioni di Ryuchi Sakamoto, Gioacchino Rossini e Daft Punk, sia la stessa persona che in questi anni qualcuno ha definito il Re Mida del pop italiano, per la sua capacità di trasformare in oro tutto ciò che ha toccato.



La risposta è, chiaramente, sì. Dario Faini è anche quello di “Soldi”, di “Maradona y Pelé”, di “Dorado”, “Nero Bali”, ma non è solo quello. Adesso il 46enne musicista marchigiano vuole prendersi i suoi spazi, dimostrando che oltre le hit con le quali in questi anni ha sistematicamente conquistato da produttore le classifiche, mettendoci i guizzi ma mai la faccia, c’è di più Farlo attraverso i dischi da compositore non gli basta più: negli ultimi sette anni ne ha pubblicati cinque, tutti diversi tra loro per riferimenti, stili, generi, da “7” del 2015 a “S.

A.D. Storm and Drugs” del 2020, passando per “Birth” del 2016 e “Slow Is” del 2017. L’ultimo, “Duality”, è uscito lo scorso autunno e dà il titolo alla tournée che in queste settimane vede Dardust esibirsi dal vivo nei teatri italiani con una produzione di tutto rispetto, in cui .racconta la sua visione della musica oltre il tormentonificio. Uno show che strizza l’occhio al mondo della classica nella forma, suddiviso in due atti a loro volta composti da quattro moduli ciascuno, a rispecchiare la dualità del disco, che poi è anche quella di Dario Faini. Da un lato c’è il Dardust più classico e tradizionale, quello che guarda a grandi pianisti e compositori contemporanei come Joe Hisaishi e Ryuchi Sakamoto e che nel primo atto del concerto racconta le stagioni dell’anno interpretando i vari mood con i suoi brani, da “Petali” a “Sturm II”, passando per “Nuvole in fiore”, “Lucciole (Dalla finestra)”, “Birth”, “Dune”, “Stormi di origami”. Dall’altro c’è il Dardust più lisergico, elettronico, che strizza maggiormente l’occhio al pop (non è un caso che in “Parallel 43” citi il sample di “Cenere” di Lazza, in “Addó staje” ospiti la voce di Tropico e in “Signore del bosco” quella di Massimo Pericolo) e fa ballare.

La struttura del live è solo apparentemente schematica e sistematica: alla fine lo show si rivela un flusso di musica lungo due ore in cui Dardust mostra tutta la sua versalitlità e la sua poliedricità, cercando di far convivere in modo estremo la dualità, i poli estremi del suo animo, invece che integrarli. Le atmosfere e gli umori cambiano costantemente, con i curatissimi e spettacolari visual mostrati sugli schermi alle spalle di Dardust - nel secondo atto raggiunto dal percussionista Marcello Piccinini e dal tastierista Vanni Casagrande - che descrivono le ideali ambientazioni dei brani, rendendo lo show un’esperienza live multidimensionale, immersiva, dal taglio fortemente teatrale: alla produzione hanno lavorato sedici esperti, tra visual artist, grafici, designer, tecnici luci.

Roba da far invidia anche a certe produzioni internazionali: .luci e video dialogano, permettendo agli spettatori di entrare dentro la musica e il mondo di Dardust, soprattutto nella prima parte, ambientata in un onirico interno giapponese 3d, tra fulmini che si abbattono proprio sul palco, gocce di pioggia e lucciole che sembrano essere reali, origami che sembrano volare intorno a Dardust. Nella seconda parte, invece, quella più elettronica, è un samurai il protagonista: attraversa sulle note di brani come “Fluid love”, “Forget to be”, “Sublime”, “Horizon in your eyes” e “Stor and drugs” universi fantastici che rispecchiano quelli che Dardust attraversa sul palco con la sua musica, spaziando dai Goblin a Moroder, dalla italo disco al Rondò Veneziano rifatto in salsa disco, fino all’UK garage. Dire psichedelico è dir poco.



La bussola ad un certo punto impazzisce. La lancetta gira incessatemente: nord, sud, ovest, est. No, la canzone degli 883 non c’entra. Il pop non c’entra. Non stavolta. Dardust sceglie di non dare coordinate: “It’s not rock. It’s not grass. It’s my personal rave”, “Non è rock. Non è l’effetto della marijuana. È il mio rave personale”, ha fatto scrivere sui programmi di sala consegnati all’ingresso dei concerti. È un manifesto bellissimo.