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Giorgio Gaber, che per fortuna o purtroppo era italiano

Giorgio Gaber, che per fortuna o purtroppo era italiano
Venti anni fa, qualche settimana dopo la sua morte, usciva l'album "Io non mi sento italiano"
Giorgio Gaber, che per fortuna o purtroppo era italiano

Di Redazione

Il primo gennaio del 2003, venti anni fa, è venuto a mancare Giorgio Gaber. Qualche settimana più tardi, il 24 gennaio, veniva pubblicato, postumo, l'album "Io non sono italiano". Oggi quell'album, il suo ultimo, compie venti anni. Lo proponiamo alla vostra attenzione invitandovi alla lettura della recensione che scrisse per noi venti anni fa Luca Bernini.

“La modernità è ciò che fa della crisi un valore” (Federico Zeri)

Difficile sintetizzare meglio, in una sola frase, ciò che rende unici gli oltre trent’anni di canzoni e teatro di Giorgio Gaber – e insieme a lui, anzi, accanto a lui, di Sandro Luporini. Da quell’album, “Il signor G”, che nel 1970 per primo metteva in luce un altro modo di fare canzoni, politica, riflessioni, ironia. Prima erano state “soltanto” canzoni, genialmente leggere, già caustiche a volta nella loro verve, ma canzoni: musica pop, figlia della lezione del Clan di Celentano, rock’n’roll mischiato ai bar milanesi e al Santa Tecla, Porta Romana e Cerutti Gino, il biliardo di Riccardo e la Torpedo Blu. Sogni di rock’n’roll, scriverebbe qualcuno, ma fatti in casa, ingenui e bonari come l’Italia negli anni ‘60. Nel 1970, con “Il Signor G”, si cambia. Nascono canzoni nuove, espresse in teatro, che raccontano lucidamente la società, ne riflettono i cambiamenti, le velleità, ne incarnano – a volte anticipandoli - ideali, menzogne, aspirazioni, miserie, false illusioni, delusioni, sconfitte, speranze.


Da allora a oggi sono passati trent’anni.

Ora, da ultimo, arriva “Io non mi sento italiano”. Ma non aspettatevi da questo disco la parola fine, perché non c’è. Non aspettatevi, come a molti forse piacerebbe e farebbe facile credere, un disco scritto e pensato per essere l’ultimo, perché non è così. Giorgio Gaber, ora che non c’è più, ci lascia tanto, ma non una parola definitiva nella quale riassumere l’idea del suo lavoro, eccezion fatta per quel titolo, forse, che se letto da solo può apparire quasi un’ultima, potente invettiva. In realtà basta leggere il seguito di quella frase, all’interno della title-track, per ribilanciare molto questa stessa valutazione (“Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, e qui si torna al concetto di appartenenza, che da sempre è proprio di Gaber e che lascia venir fuori la sua dolcezza indomabile). “Io non mi sento italiano” è un nuovo album, ancora più serrato e lucido del precedente “La mia generazione ha perso”, nel raccontare ciò che ci circonda, ancora più indignato e per nulla timoroso di gridare la paura per un mondo in cui identificarsi è impossibile tanto quanto lo è il giudicare. (Già, il giudizio che presuppone una scelta, l’ultimo concetto svuotato di significato dalla cultura dominante; chi giudica – e quindi sceglie – è un presuntuoso, è uno che cerca sicurezze. Le cose si scelgono da sole, o meglio, le sceglie la gente. La gente sceglie ciò che vuole, il mercato deve solo dare alla gente quello che vuole. Peccato se poi spesso è il mercato stesso a suggerire alla gente i suoi bisogni, non con informazioni e giudizi che servono, casomai con informazioni pubblicitarie. Ma questo è un altro discorso).


In “Io non mi sento italiano” c’è lo smarrimento per la guerra persa contro il mercato (“Il tutto è falso”), il rammarico per non aver saputo contrapporre al miraggio della merce il sogno di nient’altro di più degno (“Io non mi sento italiano”), il dolore dell’uomo che vede altri uomini mettere da parte l’amore per cose inutili e valori di facciata (“C’è un’aria”), la tenerezza per chi sceglie la fedeltà a scapito dell’egoismo (“Il dilemma”), il distacco di chi ha fegato e carattere per non essere né destra né sinistra ma libero pensiero (“Non insegnate ai bambini”). C’è il coraggio e la lucidità di chi ha perso la guerra della sua generazione, ma non si rassegna, e lascia spazio alla speranza, all’immaginazione; c’è l’orgoglio per l’uomo e per la sua umanità così divina, per le potenzialità infinite mai rispettate ma sempre lì, pronte a far sperare in un futuro finalmente migliore (“Se ci fosse un uomo”).


La modernità è ciò che fa della crisi un valore, si diceva. E Gaber ha sempre fatto di questa frase la materia invisibile dei suoi monologhi e delle sue canzoni; da sempre. La riprova sono canzoni contenute su questo album come “L’illogica allegria” e “Il dilemma”, che arrivano dal suo repertorio del 1980 (“Pressione bassa” è l’album), o “C’è un’aria”, che è del 1994 (“Io come persona”): canzoni moderne, ora come allora, perché moderne erano e sono quelle riflessioni e quegli spunti, che danno voce all’Uomo prima ancora che alla politica e al costume. Dalla prima canzone di Gaber-Luporini a oggi sono passati più di trent’anni *, ma il ponte che lega la sponda de “Il signor G” a quella di “Io non mi sento italiano” è più che mai saldo e potente, e nel suo svettare quasi beffardo, oggi che intorno al suo autore va spegnendosi l’eco di ogni temporalità. Giorgio Gaber non c’è più, al suo posto – per chi lo rimpiange – c’è un castello meraviglioso fatto di canzoni, monologhi e spunti e riflessioni da meritare parole che non vanno più di moda, ormai: Studio. Impegno. Silenzio. E rispetto.

* in realtà, la collaborazione fra Gaber e Luporini risale addirittura agli inizi della carriera del cantautore milanese: la prima canzone firmata dai due è "Suono di corda spezzata" (1980), lato B di "La ballata del Cerutti".