MUSICA




​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​
​​​​​​​​​​​​​



​​​​​​​Parliamo dei nostri gusti musicali
​​​​​​​

​​​



MUSICA
Start a New Topic 
Author
Comment
Ligabue: "A un live di Battiato pensai magari faccio il cantante"

Ligabue: "A un live di Battiato pensai magari faccio il cantante"
Il musicista emiliano è stato intervistato da Aldo Cazzullo

L'inviato del Corriere della Sera Aldo Cazzullo si è recato a Correggio e ha intervistato Luciano Ligabue. La chiacchierata tra il giornalista e il Liga ha toccato vari temi, nelle righe più sotto riportiamo solo le domande e le risposte del campo musicale.

Lei scrive di essere nato bluastro, e che in America l’avrebbero definito born blue: nato triste. In effetti nel libro c’è una vena di tristezza, di malinconia.

“C’è nella mia vita. E nelle mie canzoni. Mi porto dentro da sempre un senso di colpa, un pensiero di troppo. Sarà il retaggio cattocomunista. Per questo ho scritto “Una vita da mediano”. Una delle tante canzoni fraintese”.


Perché?

“Il senso è che nonostante il successo sono ancora qui, a correre, a lottare, a fermare l’avversario e far ripartire il gioco: come Bedin, come Oriali, come Cambiasso. Senza Cambiasso noi interisti non avremmo mai vinto il Triplete”.

Anche suo padre, come il nonno, faceva l’ambulante.

“Ma poi divenne socio di una sala da ballo: il Foxtrot di Carpi. Lì vidi il primo concerto della mia vita”.

Chi suonava?

“Un uomo alto come me; che però avevo dodici anni. Brutto, pelosissimo. Poi salì sul palco, e mi apparve forse bello, di sicuro enorme: i musicisti sparirono, esisteva soltanto lui. Era Lucio Dalla”.

Siete rimasti in contatto?

“Vent’anni dopo mi telefonò per dirmi: 'Ho ascoltato questa tua canzone, “Certe notti”. Il tuo album venderà 700 mila copie'. Clic. Non aggiunse altro”.


Si sbagliava per difetto: di copie quell’album, “Buon compleanno Elvis”, ne vendette un milione e mezzo.

“Ma Lucio mi rese felice. Del resto, devo a lui la sopravvivenza durante l’anno più brutto della mia vita: il militare a Belluno, tra prevaricazioni inutili e crudeltà volgari, insulti e gavettoni di piscia di mulo. Per resistere ascoltavo “Futura” di Dalla, oltre a “Patriots” di Battiato. E leggevo 'Altri libertini' di Pier Vittorio Tondelli.”


Lei scrisse una canzone contro la guerra del Kosovo, “Il mio nome è mai più”, con Piero Pelù e Jovanotti.

“E ci hanno coperti di merda. Tutti sollecitavano i musicisti a fare qualcosa, anche da Palazzo Chigi, dove c’era la sinistra. Ma noi non facemmo quello che si aspettavano. Sono sempre stato contro la violenza, in qualsiasi forma. Fu il cd singolo più venduto nella storia della musica italiana. Dovemmo pagare l’Iva. Ma con il resto Gino Strada costruì due ospedali in Afghanistan”.


Per lei il successo non arrivò subito.

“Ho fatto il primo concerto a 27 anni: l’età in cui i grandi del rock muoiono”.

Come mai?

“Accompagnato dal mio amico Claudio Maioli, facevamo collezione di rifiuti. 'C’è ancora molto lavoro da fare', 'magari possiamo sentirci più avanti', o anche, più direttamente: 'Le tue canzoni fanno schifo'. 'C’è troppo Guccini' disse un produttore; e stava parlando di “Balliamo sul mondo...'”.


Decisivo fu il concerto di Battiato.

“Ero sotto il palco con la mia ragazza di allora, che nel libro chiamo Morena. Ero stato a stecchetto per un anno: gli ormoni erano rifrullanti. Arrivano due donne splendide, ne avverto la carica erotica, che però è tutta concentrata su Battiato. 'Quant’è bbono!' grida una. E l’altra: 'Me lo farei subito!'. Battiato: non proprio un sex symbol. Magari faccio il cantante, ho pensato”.

Da lì a qualche anno i reggiseni li tiravano a lei.

“Sono sempre stato timido. Ma sul palco diventavo sicuro di me, sfrontato, sfacciato. Una medicina che fa effetto per due ore e mezza, che fa star bene me e gli altri. All’inizio cercavo nel pubblico i miei amici e li vedevo abbassare gli occhi: non mi riconoscevano”.

Quanti concerti ha fatto?

“Ottocento. Ma sono fermo da tre anni. Si ricomincia il 4 giugno: aspetto più di centomila persone al Campovolo, la vecchia pista di prova di fronte alle Officine Reggiane”.

Primo concerto?

“Mi dicono che devo esibirmi prima di Gino Paoli. In realtà Gino Paoli non lo incrocio neppure: è ancora pomeriggio, sole alto, clima tristissimo. Canto tre canzoni mie, ma che in realtà non mi appartengono: sono storie di persone che non conosco. Prostitute, tossiche...”.

Secondo concerto?

“All’inaugurazione di una rosticceria. Canto “Vaselina blues”, per il disgusto di un cantautore di Correggio, indispettito dall’argomento. Andrà così anche al Costanzo Show...”.

Così come?

“Dopo il primo successo, nel 1991, mi invita Maurizio Costanzo. Siccome ho portato la chitarra, mi chiede la canzone recensita con entusiasmo da Paolo Zaccagnini sul Messaggero: “Figlio di un cane”. Applauso fiacco. Costanzo commenta: di questo Ligabue sentiremo parlare a lungo. Applauso più convinto. Poi Costanzo chiede un giudizio a Carlo Croccolo, l’attore, pure lui disgustato: 'Preferisco le canzoni in cui non si parla di preservativi rotti'. Al che sale sul palco Leopoldo Mastelloni, che solidarizza, mi abbraccia, e mi chiede di cantare con lui 'nnu brano rock'. Facciamo Dylan? 'No, uno famoso'. Così cantiamo 'Oje vita, oje vita mia...”.


A scoprirla fu Pierangelo Bertoli.

“Quando gli feci sentire la cassetta con “Sogni di rock’n’roll” la estrasse e la gettò via. Ma quando subito dopo gliela suonai, a testa bassa, cambiò idea. E la volle nel suo disco”.


Come nasce “Certe notti”?

“Dall’inquietudine. Dall’irrequietezza. Sono le notti in cui devi uscire perché non sei in pace con te stesso, cerchi di risolvere qualcosa. Anche quella è una canzone fraintesa. Quasi tutte nascono da un disagio personale che mi consente di far arrivare agli altri quel che provo. Non pensavo che avrebbe avuto tanto successo, credevo che il produttore avrebbe puntato su “Vivo morto o X””.


E “A che ora è la fine del mondo?” da cosa nasce?

“Dalla vittoria di Berlusconi nel 1994”.


È vero che all’apice del successo lei voleva ritirarsi?

“È vero. Non mi andava di essere etichettato come rocker, di quelli costretti a girare sempre con gli occhiali scuri. Non mi andava di vedere i paparazzi pure a Correggio. Di farmi un nemico a ogni “non posso”. Di avere qualcuno dall’altra parte in attesa di qualcosa da me. Di sentire che avere successo significa svendersi. E poi il solito senso di colpa”.

Invece?

“Invece mi sono reso conto che potevo fare canzoni per il piacere di farlo. E ho scritto “Sulla mia strada”: 'Sono vivo abbastanza...'”.


Nel libro lei attribuisce la rivalità con Vasco Rossi ai giornalisti. È davvero tutta colpa loro?

“È una storia da cui mi è venuta una grande sofferenza. Ma nulla e nessuno riusciranno a farmi diventare antipatico Vasco Rossi. L’ho sempre rispettato, e lo rispetterò sempre”.