MUSICA




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MUSICA
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Otto donne per l'8 marzo: Dusty Springfield

Otto donne per l'8 marzo: Dusty Springfield
Profili tratti dal libro "Just like a woman" di Lucio Mazzi

Di Franco Zanetti

Dusty Springfield

La londinese Mary Isabel Catherine Bernadette O'Brien (1939-1999), questo il suo vero nome anche se fin da bambina la chiamavano Dusty, già da giovanissima era una fan sfegatata di Peggy Lee, e sapeva già che comunque la musica sarebbe stata la sua vita. A 19 anni lasciò la scuola ed entrò nel suo primo gruppo; un anno dopo, col fratello Tom e un amico, formò gli Springfields (da cui il… cognome d’arte). I tre facevano folk americano, trovarono un contratto con la Philips e iniziarono a portare qualche singolo in classifica.
Dopo un paio d’anni lei decise di fare da sola.

Il primo 45 giri, del novembre 1963, "I Only Want to Be With You", fece subito boom: rimase in classifica 18 settimane e fu la prima canzone ad essere eseguita nel neonato e leggendario programma tv "Top of the Pops". Era dichiaratamente ispirata al Motown sound, i suoni erano quelli di Phil Spector, perché quello era ciò che andava in America in quel momento e perché quella era la musica che amava. E l’album "A girl called Dusty" era sulla stessa lunghezza d’onda. In più le canzoni erano scritte dalla crema degli autori pop del periodo, star o future star del songwriting: Carole King, Burt Bacharach e Randy Newman.


Lei, però, aveva orizzonti più ampi della pop music usa-e-getta di stampo americano: non si rassegnava ad essere solo una cantante pop anche perché lei si sentiva… nera a metà. E poi aveva le sue idee. Ad esempio, nel ’64 fu la prima cantante europea a esibirsi in Sudafrica sfidando apertamente il regime, ma quando si presentò davanti a un pubblico misto di bianchi e neri il governo le consegnò il foglio di via.

Nel 1965 partecipò al Festival di Sanremo con due canzoni - "Di fronte all’amore" e "Tu che ne sai" - e non se ne accorse nessuno, ma in quel Sanremo ascoltò "Io che non vivo" di Pino Donaggio e se la portò a Londra, la fece tradurre dall’amica Vicky Wickham, la registrò nella tromba delle scale perché insoddisfatta dell’eco dello studio di registrazione (era una perfezionista e… aveva le sue idee) e come "You Don’t Have To Say You Love Me" la sparò al primo posto della classifica. La canzone, in varie interpretazioni, venderà in tutto il mondo qualcosa come 80 milioni di copie.


Non così tanto venderà, ma l’anno dopo sarà comunque un successo mondiale, "The Look of Love" di Bacharach, inserita nella colonna sonora del film "007 Casino Royale".


Alla fine del decennio firmò per la Atlantic e registrò in America il suo capolavoro, "Dusty in Memphis", mischiando pop orchestrale e soul. Il disco era bellissimo, con grandi canzoni di grandi autori, ma non fu un successo forse perché lei, una inglese bianca che alla fine veniva dal pop, era poco credibile come cantante soul accompagnata da musicisti soul e soprattutto che trattava temi importanti come solitudine, vergogna, vulnerabilità, dipendenza dall’uomo. Paradossale: da bianca schierata per la causa dei neri finì per subire una sorta di discriminazione… al contrario.

Quello fu comunque il suo canto del cigno, perché quella che sembrava una carriera ormai consolidata, per tutti gli anni ’70 conobbe un brusco stop. Complice il fatto che all’inizio del decennio ebbe il coraggio di dichiarare a propria omosessualità? C’è chi dice di sì, c’è chi dice di no, ma due fatti sono incontrovertibili: ebbe coraggio a farlo in quel momento (l’anno dopo, un simile coming out di David Bowie ne accrebbe a dismisura la popolarità, ma già: lui era un uomo…), e comunque le vendite crollarono.

Ci sarebbero voluti il 1987 e i Pet Shop Boys perché il nome di Dusty Springfield tornasse nei piani alti della classifica, avvenne con il brano "What Have I Done to Deserve This?". Il duo aveva aspettato a lungo la possibilità di registrarlo con lei, rifiutando di pubblicare la canzone da solo, e aveva avuto ragione.


Due anni dopo per lei i Pet Shop Boys avrebbero scritto e prodotto l’album "Reputation" che fu un altro inaspettato successo. Purtroppo l’ultimo. Poi una lunga battaglia contro il cancro e, alla fine, la resa.


Questa scheda è tratta dal libro "Just like a woman" di Lucio Mazzi, per gentile concessione dell'autore.