MUSICA




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Da Mina ad Aretha Franklin e Mariah Carey. Beppe Cantarelli: “Ora è tutta junk music”


Chitarrista, autore di evergreen per artisti famosissimi, ha lavorato con Quincy Jones e vissuto da protagonista l’epoca d’oro della discografia. Si è ritirato a “musica privata” ma ci ha raccontato perché ormai quella che ascoltiamo è simile al “cibo spazzatura”

diGIANMARCO AIMI

Dalla Busseto immersa nelle melodie verdiane alla Los Angeles dell’esplosione del Rock & Soul, ha attraversato più di trent’anni della storia della discografia da protagonista; e nonostante negli ultimi tempi abbia deciso di “ritirarsi a musica privata”, basta sollecitarlo per far emergere quel fuoco sacro che lo ha animato in passato permettendogli di imporsi come uno degli artisti che hanno segnato il periodo migliore della musica, da una parte all’altra dell’oceano.


Beppe Cantarelli, 67 anni, compositore, cantante, arrangiatore, produttore e direttore d’orchestra, ha infatti un curriculum da far impallidire chiunque, benché forse oggi sia poco conosciuto al grande pubblico. In estrema sintesi, gli inizi con Mina che ha accompagnato con la chitarra al Bussoladomani ’78 (suo ultimo live) suonando in quattro suoi dischi, tra i quali Attila (il più venduto della “tigre di Cremona”), in seguito si è trasferito in America per lavorare a stretto contatto con il re della black music Quincy Jones e realizzato due brani evergreen come Another Night per Aretha Franklin e I Still Believe portato al successo globale da Mariah Carey.



Nel mezzo, un’altra miriade di collaborazioni illustri, negli Stati Uniti con Joe Cocker, Amii Stewart, Bonnie Tyler, gli Evanescence e in Italia con Ornella Vanoni, Loredana Bertè, Fiorella Mannoia, Toto Cutugno, Renato Zero e molti altri. Un giorno, sul palco, Michael Jackson gli disse simpaticamente: “È meglio se continui a fare musica”. Si riferiva ai passi sbagliati da Cantarelli durante una coreografia. E lui lo ha preso alla lettera. Lo abbiamo incontrato, scoprendo, tra le altre cose, come mai la musica dagli anni ’90 in poi abbia perso l’anima: “È colpa delle multinazionali che hanno distrutto gli indipendenti e ci hanno condannato alla junk music”.

Le origini di Busseto in piena terra verdiana hanno contribuito alla sua formazione musicale?
Nascere nella patria di Giuseppe Verdi ha sicuramente influito. Da bambino cantavo nel coro e il mio maestro era Carlo Bergonzi, uno dei maggiori tenori verdiani, anche se il mio idolo era Mario Del Monaco, che nel mio slang definivo “tenore baritonato” o “baritono tenorato”. A 9 anni, nel 1964 quando è arrivato in paese per esibirsi con l’Otello, ho avuto l’onore insieme ad altri ragazzi del coro di duettare con lui. Ma sa cosa ricordo con più impressione?

Cosa?
Che a quei tempi, nei due bar che si affacciavano sulla piazza, c’erano sempre a Busseto i migliori impresari di tutto il mondo. Su quei tavolini facevano firmare i contratti ai cantanti dopo averli ascoltati.

Come mai ha poi deciso di seguire altre strade, rispetto alla musica classica?
Crescendo, con il cambio della voce è cambiato il repertorio. Per cui mi sono appassionato ai Beatles, ai Rolling Stones, a Jimi Hendrix e a Joe Coker. Frequentavo il liceo classico Manin a Cremona e con la prima band mi sono fatto le ossa con le cover di questi grandi artisti.

E come è entrato in contatto con Mina?
A metà degli anni ’70 mi sono trasferito a Milano per entrare nel “giro delle incisioni”. Come chitarrista mi chiamavano le varie case discografiche e in quell’ambiente l’ho conosciuta. Ha rappresentato il cambio di marcia nella mia esistenza professionale. Avevo registrato la canzone Se il mio canto sei tu nel ’78 e subito dopo Mina mi ha chiesto di seguirla per suonare al Bussoladomani, la sua ultima apparizione del vivo. Poi ho lavorato con lei per altri quattro album, fra i quali Attila che ha venduto 1 milione di copie ed è il suo disco come solista più fortunato.

Lei è stato anche il primo a duettare con Mina.
Sì, proprio su un brano che è uscito in Attila, si intitola Sei metà. L’episodio è curioso. Di solito, prima di darle le canzoni le cantavo io sulla base con la sua tonalità, così avrebbe avuto già modo di familiarizzarci. A volte, per ridere, le cantavo imitandola con un falsetto alla Bee Gees, come andava di moda allora. Un giorno in studio, lei entra e tutti ci aspettiamo che come al solito canti in un unico take, ma con il tecnico del suono Nuccio Rinaldi notiamo che nonostante sia aperto il microfono la sua voce non si sente. Dopo un po’ canta qualche linea e il ritornello. Alla fine, pensavamo l’avrebbe rifatta, invece si toglie le cuffie, viene da noi con un foglietto in mano e dice a Rinaldi: “Dove vedi la croce apri Cantarelli che fa il coglione, dove vedi il pallino apri la mia voce e dove ci sono entrambe le tieni tutte e due”.



Un bell’attestato di stima…
Ci sono rimasto, perché io stavo scherzando. Ho anche provato a dirle che volevo ricantarla meglio, ma non c’è stato verso. Mi ha fatto rifare solo due parole: “Niente” e “sempre”, ma con la “e” aperta, alla cremonese.

Un sodalizio sul quale ha scritto un libro: “Mina canta Cantarelli, Cantarelli canta Mina: Racconti dietro le quinte”. Che persona è Mina oltre all’artista?
È una persona molto alla buona, semplice, tranquilla. In un altro libro che ho scritto sulla tecnica vocale, un capitolo si intitola L’umiltà dei grandi. Avendo avuto la fortuna di lavorare con grandissimi artisti, devo dire che più sono grandi e più sono umili. Lei rientra nella categoria.

Dal punto di vista vocale è ancora la migliore?
Dal punto di vista artistico è a tutt’oggi, a parere mio, la cantante numero uno italiana. Ha fatto la storia delle “canzonette” come le chiama lei. Oltre ad avere capacità vocali impressionanti, ha una interpretazione delle parole e una attitudine che sono inimitabili. Ed è ancora attuale nonostante siano 60 anni che canta. Poi dagli anni ’80 quando è scoppiata Madonna è stato legittimato il canto nasale, non farmi fare i nomi ma basta ascoltarle, per cui lei rimane la più grande.



Quale altro artista italiano l’ha più impressionata?
Bruno Lauzi, che era un vero poeta. Allora a Mina cantavo i pezzi con un inglese “made in Taiwan” o “alla Celentano” e poi decidevamo a chi affidare il testo. E per due brani abbiamo scelto Lauzi. L’ho chiamato e così sono nate Radio e Sono sola sempre. Fu una bellissima collaborazione. Prima di andarsene mi aveva mandato un paio di libri di sue poesie. Al suo stesso livello, un altro con cui ho collaborato è Francesco Di Giacomo del Banco del mutuo soccorso.

Com’è che a un certo punto decide di andarsene in America?
Dopo l’album Attila mi chiamavano tutti, lavoravo come un pazzo e la stessa Mina andava a dire in giro “Cantarelli è il migliore”, per grande felicità del mio commercialista. Però quando arrivi a grandi livelli nascono nell’ambiente anche le gelosie. Venivo criticato per essere troppo “americano”. E visto che già da tempo avrei voluto fare una esperienza con chi ha inventato un certo tipo di musica, ho colto l’occasione di lasciare tutto e andarmene. Ho pensato che almeno là non mi avrebbero detto che ero troppo americano. Infatti, mi dicevano che ero troppo italiano.

Non sembra che in America sia ripartito proprio da zero, visto che ha cominciato a collaborare da subito con Quincy Jones, il produttore più influente della black music.
Era il produttore numero uno nei miei ascolti. A me piaceva il rhythm and blues e proprio in quegli anni nasceva il Rock & Soul. O come lo chiamavamo noi addetti ai lavori, con slang politically uncorrect, il “rock sopra ma col culo nero” a indicare le vibrazioni rock ma con sotto un bel groove.

È in questo periodo che avviene anche l’incontro con Michael Jackson?
Sì, durante il mitico Budweiser Tour del 1982 dove a volte veniva a cantare con noi. In quel periodo stava preparando Thriller con Quincy e così io ogni giorno andavo in studio per assorbire come una spugna come facevano i dischi questi mostri. Poi ci raggiungeva ogni tanto nelle varie date. A Indianapolis, che era la sua città, ricordo che nell’ultimo pezzo dello spettacolo cantava Stuff Like That e aveva affidato a noi della band una coreografia. Alla fine, visto che sbagliavo i passi, mi ha detto simpaticamente: “È meglio se continui a fare il musicista invece di ballare”. Aveva ragione.

Che cosa ha lasciato musicalmente Michael Jackson?
È una pietra miliare, perché è quello che ha venduto più album, più di 130 milioni nel mondo e solo in America 30 milioni, che equivalgono a 30 dischi di platino. Sono record assoluti. Per l’aspetto musicale, ha inventato un genere già dai The Jackson 5 che si è evoluto nei progetti solisti lasciando un segno indelebile. A distanza di anni, ancora adesso vedo artisti che si rifanno al suo stile.

Anche lei a livello di repertorio può contare su alcuni evergreen. Per esempio, com’è nata I Still Believe, poi portata al successo da Mariah Carey?
È il più grosso successo commerciale del mio catalogo e dietro c’è un aneddoto. Il produttore di Brenda K. Starr si era innamorato di questa mia canzone negli anni ’80 e così gliel’ha fatta registrare. L’aveva proposta anche a Diana Ross ma lei, per fortuna mia, non era convinta. Così quando esce l’album, inaspettatamente, tutte le radio americane iniziano a passarla e rimane in classifica sei mesi. E non avevano neppure previsto il singolo. Quando parte il tour, Brenda che era un po’ stonaticchia, decide di portare con sé una ragazzina di 15-16 anni come corista e si trattava di Mariah Carey. In seguito a un party lei conosce il produttore Tommy Mottola e il resto è storia.

E come mai nell’album Number 1’s di Mariah Carey finisce un brano cantato dieci anni prima da Brenda K. Starr?
Mariah Carey, come ha scritto proprio all’interno del disco, lo ha dedicato a Brenda perché è stata la prima ad averla introdotta nel music business.

Un altro evergreen scritto da lei e cantato nientemeno che da Aretha Franklin è Another Night. Quando ha conosciuto la regina del soul?
Sempre nel 1982 durante il tour di Quincy Jones. Nello stesso spettacolo suonavano, lei, Michael Jackson, Stevie Wonder, Luther Vandross, James Ingram, Patti Austin, Ashford & Simpson e Kool & The Gang. Ogni sabato si andava in stadi megagalattici con 100mila persone. Una situazione futuristica per gli anni ’80 con tre palcoscenici intercambiabili che si giravano su una piattaforma mobile con esibizioni dalle 15 del pomeriggio alle 3 di notte. E poi Aretha aveva una particolarità…

Quale?
L’ho notata quando eravamo a Dallas. Quincy me l’ha presentata e alla fine dello spettacolo ricordo che era giugno, con un caldo incredibile e lei quando ci ha salutato è salita su una limousine. Ho visto l’autista farsi il segno della croce, perché siccome non volava in aereo sarebbe tornata a Detroit in auto, sono quasi 2mila chilometri…

Quando decise di incidere Another Night?
Due anni dopo Clive Davis, un produttore che ha scoperto anche Whitney Houston, ha iniziato a lavorare con Aretha e sull’onda del successo del Rock & Soul scoppiato con l’album di Tina Turner Private Dancer (del 1984, ndr) ha deciso di farle fare un disco simile. Ha sentito il mio brano, che in realtà avevo scritto per Rod Stewart, e glielo ha fatto incidere in Who’s Zoomin’ Who? Quando mi hanno mandato la cassetta e ho sentito la sua interpretazione e come l’avevano arrangiato, sono uscito di casa, ho raggiunto il fiorista e ho spedito ad Aretha 100 rose rosse con un biglietto dove avevo scritto: “Thanks for the great job”. Another Night l’ha anche cantata ai Grammy dell’85.

Rispetto a quegli anni, come vede cambiato il mondo della discografia?
Ho iniziato a lavorare con le grandi produzioni negli anni ’70 in Italia e poi ho proseguito negli anni ’80 in America e ho toccato con mano l’arroganza delle multinazionali. Ero autore in esclusiva per la Screen Gems-EMI e ho collaborato con tante altre e ho visto come hanno rovinato la musica.

A questo punto, sono curioso di sapere come è avvenuto.
Prima di tutto, bisogna capire che la creatività non nasce nei consigli di amministrazione, dove, come dicono in America, ci sono “quelli che contano i fagioli”. O gli uomini del marketing, che poi sono diventati tutti direttori artistici. Fino alla fine degli anni ’80 la musica era in mano alle produzioni indipendenti, che in un secondo momento si affidavano alle infrastrutture e alla promozione delle multinazionali. Pensate se i Beatles avessero avuto il marketing…

E quindi cosa è accaduto?
Per sbarazzarsi delle produzioni indipendenti, che riuscivano a lanciare artisti con 60-100 mila dollari per poi passare all’incasso dalle multinazionali, questi manager in giacca e cravatta hanno cominciato a dare barche di soldi alle radio per stroncare sul nascere ogni diffusione indipendente. Quello che era un mestiere prima di tutto artigianale fra artisti è presto diventata una industria come la Coca Cola. E così, il settore indipendente da primario è diventato secondario se non terziario e sopravvive con i cataloghi vendendo a tv, cinema e pubblicità.

Per cui prima la musica come veniva scelta?
Faccio un paragone con la ristorazione. È come se da un giorno all’altro passi dal mangiare cibo cucinato da uno chef a quello di un fast food. La musica d’autore l’hanno ammazzata diffondendo cibo spazzatura, hanno eliminato completamente la parte artistica. Ora ascoltiamo Junk Music. Un altro errore è stato rivolgersi solo al “Bubble Gum market”, quello dei ragazzini. È il più facile da acquisire ma anche quello più facile da perdere. Intanto, hanno tralasciato il mercato per gli adulti che è quello sofisticato. Io ogni lunedì, per contratto, andavo alla EMI davanti a tre direttori artistici e portavo ogni volta composizioni nuove e se non gli piacevano mi mandavano a casa a calci nel culo. Cercavano canzoni forti, facevano i test con le radio e non nascevano imposte dal marketing. Il music business è morto quando è diventato corporate, cioè una industria a tutti gli effetti.

Come se ne esce?
Si dice spesso che la musica è soggettiva, che a te può piacere una cosa e a me no. Ma c’è una oggettività riconosciuta anche dai finanzieri di Wall Street: il catalogo editoriale e dei master. Se negli ultimi 30 anni l’industria discografica non ha più questo tipo di “prodotti” che cosa vuol dire? Che hanno prodotto merda! Non a caso ci sono banchieri che pretendono di fare i direttori artistici.

Come nel caso recente di Bob Dylan che ha venduto il suo intero catalogo alla Universal per 300 milioni di dollari.
E prima ancora l’esempio più eclatante di Michael Jackson che litigò con Paul MacCartney quando gli soffiò il catalogo dei Beatles. Dopo dieci anni, ormai caduto in disgrazia, per rinnovare il contratto con la Sony ha dovuto cedere quel catalogo, ma si è fatto anticipare 900 milioni di dollari quando lui l’aveva pagato 45 milioni.

È per questo che in seguito si è allontanato anche da quel mondo per rifugiarsi nella musica sacra?
Non è stata una fuga dalla musica perché continuo ad amarla, ma appunto perché volevo ancora divertirmi con quel sistema non era più possibile. Tu l’hai chiamata “musica sacra” ma la dividerei in due definizioni. Da una parte quella veramente sacra, per esempio quando ho realizzato la riscrittura del Magnificat che poi abbiamo suonato nel 1999 in mondovisione in Vaticano per il Giubileo del Terzo Millennio di Papa Giovanni Paolo II. Ma il resto della mia musica la definirei “ispirazionale”, cioè mi viene dall’anima e mi auguro possa parlare all’anima degli altri.

È vero che, tornato in Italia, ricevette la chiamata di Maria De Filippi per fare il giudice ad Amici ma dopo due puntate se ne andò a gambe levate?
Quando uscì in Italia il mio libro “Tecnica vocale crossover” mi presentarono la De Filippi, questo è vero. Come collaborazione ci stava, io insegnavo a cantare e loro avevano una scuola di musica, benché in televisione. Solo che non era possibile chiedermi di collaborare a quelle condizioni. Se è una collaborazione non puoi pretendere il 100% degli introiti. Invece lo pretendevano, sempre per via dell’arroganza di certi ambienti, per cui sono durato un paio di puntate.

Rifacendomi al suo libro, è vero come ha sostenuto che non esistono persone stonate?
L’intonazione è un fattore acquisibile. Ci sono persone che hanno l’orecchio assoluto, ma esistono degli esercizi apposta che te lo possono far acquisire. Così uno stonato, volendo, può sempre diventare intonato. L’intonazione è un fattore che si impara con lo studio e l’applicazione. L’unico elemento che non è acquisibile è il ritmo, quello è solo leggermente migliorabile.

Quindi, come ha scritto sui social si è definitivamente “ritirato a musica privata”?
Certo e vuol dire fare musica che mi piace, con chi mi piace e quando mi piace. Io da un po’ di anni registro con un take solo chitarra acustica e voce, senza computer per evitare i trend del momento. Tutti oggi hanno accesso alle stesse librerie musicali, infatti dopo che ascolti la radio per dieci minuti ti accorgi che tutte le canzoni suonano uguali. Io invece a quel take aggiunto un contrabbasso e una orchestra sinfonica di 70 elementi per arrivare a una musica che sia senza tempo. Poi ho un mio giro di persone a cui le faccio ascoltare su Whatsapp.

Solo su Whatsapp?
Sono partito mandandole a una decina di amici e ora, dopo quasi due anni, sono diventati migliaia in tutto il mondo. Ogni martedì ci metto ore ad inviarle. L’ho chiamata “Serenata settimanale blues, rock and soul”. Vuoi che ti inserisca negli invii?

Molto volentieri. Per cui non c’è nulla che le manca del music business?
Se mi guardo indietro ci sono momenti molto belli, i grandi artisti con cui ho lavorato, i premi che ho ricevuto, gli assegni che mi staccavano, però non è quello che mi manca. Soprattutto a causa di questa pandemia, non sono più riuscito a realizzare i concerti di beneficienza che portavo avanti da anni, grazie ai quali devolvevo l’intero ricavato a chi aveva più bisogno. C’è ancora l’emozione nella composizione di una canzone ma dura molto poco, mentre quegli spettacoli con cui ero davvero utile agli altri mi facevano sentire felice.