MUSICA




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Dopo le statue, tocca al rock bianco? - di Marinella Venegoni

Dopo le statue, tocca al rock bianco?
Ora si fanno le pulci a Stones e Zeppelin...

Negli ultimi tempi i passi avanti delle star nere si sono fatti più svelti, e decisi. Il rap è andato nel tempo alla riscossa grazie a personaggi come Kendrick Lamar, che domina negli ultimi anni; e nel pop c’è da qualche mese l’autentica furia di Beyoncé, sempre più apertamente scatenata nel riprendersi ciò che spetta alla musica e alle donne nere, doppiamente all’angolo.
Sono solo due casi di grandi primati raggiunti, ma nel drammatico confronto con la Storia e con le storie seguito all’assassinio di George Floyd, dopo le statue tocca ora al rock inteso in senso lato, e ce n’è per tutti. Prepariamoci a veder imbrattare di vernice anche i santini dei Led Zeppelin, degli Stones, di Eric Clapton che da ubriaco diceva purtroppo quel che pensava; perfino Paul McCartney, si scopre, protestava perché i pakistani rubavano il lavoro ai bianchi. Tutti poi, naturalmente (e giustamente) pentiti.
Nel pop, l’uomo bianco ha compiuto i suoi bravi latrocini, e non è una notizia di oggi che l’inventore del rock’n’roll sia stato Chuck Berry e non certo Elvis Presley, il quale semmai per emergere ha avuto dalla sua, oltre che la bravura, l’ispirazione dai neri, i manager, la discografia, i quattrini e tutto ciò che Chuck non poteva permettersi, compreso il folto pubblico nel quale il razzismo non mancava. Di queste dinamiche si è scritto nell’indifferenza generale per decenni, mentre il music business si espandeva.
Eppure molti protagonisti della musica nera resero omaggio al bene che Elvis finì per procurare loro: Little Richard, recentemente scomparso, disse nel 1970: «Ringrazio Dio per aver mandato Elvis ad aprire quella porta, così pure io sono riuscito ad uscire sulla sua stessa stessa strada»; James Brown lo definiva «Un fratello»: eppure, quando la porta della segregazione razziale fu finalmente aperta, tutti loro e gli altri musicisti neri non riuscirono mai a cantare negli stessi locali dove si esibivano i bianchi con le loro hit. Però Elvis apparve spesso molto onesto nelle sue dichiarazioni: «Il rock and roll era qui da tanto tempo prima di me, nessuno può cantare quella musica come la gente di colore. Diciamolo: io non sono capace di cantare come Fat’s Domino. E lo so bene».
I Rolling Stones ancora implumi abbracciarono il blues: nerissimo, nato con Robert Johnson. D’altronde, il loro nome veniva dal titolo di una canzone di Muddy Waters, "Rolling Stone Blues". Il più appassionato era Keith Richards, e tale è rimasto nel corso dei decenni. Ma ora, dopo Floyd, di tante altre storie si ricomincia a parlare, si tirano fuori libri e articoli e anche semplici memorie umane di chi c’era ma non trovava mai il giusto interlocutore. Si fanno le pulci ai testi razzisti proprio degli Stones, «Brown Sugar» o «Some Girls» («Black girls just want to get f***ed up"»). Si riflette sulla figura di Jimmy Hendrix, il più grande, e su quella specie di sua trasfigurazione in chiave neutra, visto il successo inusuale per un artista di colore.
E, anche, si accusano i Led Zeppelin, che pure ebbero come gli Stones il grande merito di diffondere la musica nera, di non aver sempre pagato i diritti che spettavano per il "saccheggio" di epici pezzi come "Whole Lotta Love" di Willie Dixon cantata da Muddy Waters, e "Bring it on Home" scritta sempre da Dixon ed eseguita da Sonny Boy Williamson II. Ma è solo l’inizio.