MUSICA




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MUSICA
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Dall’orchestra di Auschwitz al rap

Dall’orchestra di Auschwitz al rap
Vita di Esther, salvata dalla musica
Una fisarmonica cambiò il suo destino, canta ancora oggi. «La Germania di nuovo a rischio»
di Paolo Valentino, corrispondente da Berlino
Dall'orchestra di Auschwitz al rap Vita di Esther, salvata dalla musicashadow

La musica è stata la sua vita. La musica le ha salvato la vita. La musica la tiene in vita. Esther Béjarano è una cantante di 95 anni. Esther Béjarano è sopravvissuta ad Auschwitz. Esther Béjarano fa ancora concerti.

Quando vi racconta la sua storia straordinaria, l’infanzia felice in una famiglia ebraica nel Saarland, le persecuzioni razziali, la deportazione nei campi di sterminio, le «harte Wendungen», le svolte dure del suo destino che l’hanno sottratta alla morte, la sua missione in una rap band, Esther ripete spesso una frase che può suonare strana: «Ho avuto fortuna».«Perché le sembra strano? Mi considero fortunata per essere ancora qui e poter raccontare quello che è successo», dice accogliendomi nella sua casa di Amburgo. Un appartamento caldo come un abbraccio, pieno zeppo di cose, quadri, mobili, libri, spartiti, strumenti musicali, ninnoli, fotografie, tante fotografie.

Esther Béjarano non aveva neppure 20 anni nell’aprile del 1943, quando dal campo di lavoro di Neuendorf, nel Brandeburgo, dov’era stata internata alla fine del 1941, venne messa dai nazisti con altre centinaia di persone su un carro bestiame diretto ad Auschwitz. Era già sola. I suoi genitori, entrambi musicisti, erano stati uccisi due anni prima insieme a mille ebrei di Breslavia, in un bosco vicino Riga dopo un rastrellamento. Anche Ruth, una delle due sorelle, era morta falciata dalle SS insieme al giovane ebreo ungherese che aveva sposato, mentre tentavano di attraversare il confine con la Svizzera. Ma Esther tutto questo lo avrebbe appreso a guerra finita. Solo il fratello e l’altra sorella si erano salvati: nel 1937 Gerdi era andato da una zia negli Stati Uniti, Tosca in Palestina in una scuola agraria.

Nel lager di Birkenau, la fortuna prese le sembianze di una fisarmonica. «Ero quasi alla fine, il lavoro consisteva nello spostare enormi pietre, mentre le guardie ci bastonavano. Sarei morta di sicuro, ma un giorno venne Zofia Czajkowska, la direttrice dell’orchestrina del campo. Cercavano musiciste. La capo baracca propose me e altre due. Io sapevo suonare il pianoforte, ma non ne avevano uno. Czajkowska mi indicò una fisarmonica. Non ne avevo mai vista una. “La sai suonare?”, mi chiese. Dissi di si. Mi chiesero di provare Bel Ami, una canzonetta allora in voga. Conoscevo il motivo, trovai gli accordi. E mi presero con le altre due amiche. Fu un vero miracolo». Esther si trasferì nella baracca dove vivevano i musicisti. «C’erano letti veri e mi diedero perfino un maglione». Dopo tre settimane di prove le piazzarono all’ingresso del campo. Eseguivano marcette e pezzi popolari, al mattino quando le squadre uscivano per andare al lavoro e alla sera quanto tornavano. Oppure suonavano sulla rampa, quado arrivavano i treni. «Era una pressione terribile per noi: quando le persone ci passavano accanto, destinate direttamente alla camere a gas, sicuramente pensavano che in un posto dove veniva suonata della musica non doveva essere così orribile».

Esther Béjarano ha raccontato con semplicità e precisione l’orrore in un bel libro scritto insieme ad Antonella Romeo, La ragazza con la fisarmonica, edito da SEB27. «Ogni giorno vedevamo cadaveri distesi per la strada. Molte donne per disperazione si gettavano contro la recinzione dove passava la corrente elettrica. Le vedevamo al mattino. Morte, ancora appese al filo spinato». Ricorda bene il medico capo, il dottor Mengele, impassibile sulla rampa, che come Minosse con la coda decideva il destino di ognuno con un semplice movimento della mano. La «fortuna» di Esther prese diverse sembianze. Perfino quella di Otto Moll, il famigerato capo del crematorio, uno che adorava far sbranare i prigionieri dai suoi cani: quando la giovane fisarmonicista si ammalò di tifo addominale, la fece ricoverare nell’infermeria dei cristiani e minacciò perfino una dottoressa che non le dava le medicine. «Non so perché lo fece, forse per l’orchestra di cui si sentiva responsabile. Però mi salvò la vita».

Poi la «fortuna» assunse il volto di sua nonna paterna, un’ariana. «Un giorno annunciarono che tutte le donne che avevano un po’ di sangue ariano nelle vene dovevano presentarsi al capo baracca: sarebbero state trasferite in un altro campo, il campo di lavoro femminile di Ravensbrück. Io ero lacerata. Non volevo lasciare le mie compagne, ma furono loro a dirmi che dovevo farlo, dovevo uscire da Auschwitz e sopravvivere per poter un giorno raccontare quello che era successo». Accadde proprio così. Esther lasciò Birkenau per Ravensbrück.

Il Dopoguerra non fu facile. L’emigrazione in Palestina, lo choc del campo col filo spinato creato dagli inglesi per gli ebrei che venivano dall’Europa, le incomprensioni con gli ebrei che costruivano il nuovo Stato di Israele e guardavano con sospetto i sopravvissuti: «Non ci volevano. Ci colpevolizzavano, perché non siamo stati inghiottiti dalla Shoah, l’accusa implicita era che se eravamo vivi dovevamo aver collaborato con i nazisti». Nel 1956 decise di tornare in Germania insieme a Nissim, che aveva conosciuto e sposato in Israele. «Scelsi di non vivere nella città dov’ero cresciuta, troppo grande era il dolore del ricordo». Ci ha messo decenni, Esther, per trovare la forza e la voce di raccontare l’indicibile. Ma quando venti anni fa ha iniziato, non ha più smesso. Alla sua maniera. In musica. Prima in una band con i suoi figli, Edna e Joram. Ora con i Microphone Mafia, due musicisti rap, uno di origine turca, l’altro italiana.

«Dopo il 1945 la Germania non ha fatto alcuna de-nazificazione. Ci fu silenzio. Non fu fatta luce sui criminali, solo negli anni 70 si è cominciato a parlare di Olocausto, grazie a un film americano. E questa è la ragione per cui oggi ci sono tanti neonazisti in giro. L’antisemitismo è in aumento: attacchi, aggressioni. Per questo io faccio questo lavoro, canto e vado nelle scuole per raccontare cosa ho vissuto».