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Ivano Fossati: «Io, con la mente aperta e i cassetti vuoti»

Ivano Fossati: «Io, con la mente aperta e i cassetti vuoti»

LUCA UBALDESCHI (il Secolo XIX)
23 DICEMBRE 2019
Genova - «Leale» non è probabilmente il primo aggettivo che viene in mente per definire un disco. Ma è proprio quello che Ivano Fossati sceglie per spiegare il successo del lavoro realizzato con Mina. «Bisogna fidarsi dell’intelligenza e della sensibilità delle persone. Se tu fai qualcosa di buono, là fuori se ne accorgono, non si deve commettere l’errore di pensare che la gente stia tappata in casa ad ascoltare musica orrenda. Però bisogna lavorare bene. Se riesci a dimostrare che il lavoro è espressione sincera del tuo animo e non lo hai fatto pensando alle classifiche, ecco, allora il pubblico ti crede e ti premia perché riconosce la lealtà. Così è successo con Mina. Durante i due anni del progetto non abbiamo mai pensato alle vendite. Certo, ora siamo contenti di sapere che il disco stia funzionando bene, ma mentre registravamo a noi bastava essere felici di quello che stavamo facendo».

C’è una luce delicata a illuminare il soggiorno della casa nel centro di Genova mentre Ivano Fossati ricostruisce la genesi di “Mina Fossati”. Intorno, la musica è una presenza importante, ma discreta: il pianoforte Steinway & Sons, i cd di Miles Davis, una lunga fila di vinili nel ripiano più basso della grande libreria. Il discorso si allarga ai nuovi talenti della musica, alla politica, a Genova e si coglie sempre una nota di speranza, forse frutto proprio dell’esperienza di questo disco che ha riportato sulla scena, dopo un esilio volontario, uno degli autori più importanti e apprezzati.


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Nella voce a lei dedicata su Wikipedia si legge “In attività dal 1971 al 2012, torna brevemente nel 2019 per pubblicare un disco con Mina Mazzini”. Ha aggiunto lei “brevemente”? E davvero pensa di scomparire di nuovo?

«Non so chi l’abbia scritto, ma soprattutto non so bene che cosa succederà, adesso seguo quello che sta avvenendo per questo disco, poi vedrò».

Questo significa che è aperto a eventuali altri impegni professionali?

«È molto possibile che io torni alla vita di prima, però non mi sembra il momento di decidere niente. È già stata una grossa decisione rimettermi a fare un disco».

Comporre canzoni non è come fare un lavoro di ufficio, non si va in pensione dall’essere un autore. In questi anni che cosa ha fatto? Ci sono nella memoria del suo computer tanti brani che aspettano di essere pubblicati?

«No, no. Non ho scritto niente se non poche canzoni per alcuni miei colleghi come Fiorella Mannoia. Non ho mai tenuto canzoni in memoria, anche quando preparavo i miei dischi, facevo 11 canzoni e pubblicavo quelle. Moltissime volte è capitato che mi telefonassero editori o cantanti e mi dicessero “sicuramente avrai qualcosa nel cassetto”. Invece no, i cassetti li tengo vuoti. Perché non mi piace lavorare senza uno scopo, quando non devo preparare un disco preferisco pensare a tutt’altro».

Non le capita di vedere qualcosa che ispira di getto dei versi che poi magari rimangono lì?

«Mi appunto delle cose, questo sì, a volte se mi viene un pensiero bello leggendo un libro o durante un viaggio, lo scrivo, ma non ci costruisco una canzone. Mi tengo quell’idea nel caso poi possa servire».

A che cosa si è ispirato per scrivere le canzoni di “Mina Fossati”?

«Non è facile spiegarlo, perché è il disco più particolare che abbia mai scritto. Io ho sempre fatto canzoni univoche, perché fossero cantante da un artista solo, io o un altro. Per la prima volta ho scritto canzoni che sono dialoghi, ho dovuto creare piccole drammaturgie, storie che potessero funzionare a due voci. Non si tratta semplicemente di prendere un brano, smembrarlo in tante parti e ognuno ne canta una. Vuol dire invece pensare a una canzone in maniera teatrale».

Quindi un lavoro che ha preso forma lungo il percorso?

«È stato stimolante confrontarmi in continuazione con Mina, trovare idee condivise. I nostri mondi sono contigui, ma non esattamente sovrapponibili, i miei dischi sono diversi da quelli di Mina, per cui dovevamo incontrarci».

Come ha trovato questo punto di incontro?

«Ragionando, prima io da solo, poi con lei, pensando alla sua storia musicale e alla mia. È capitato che Mina dicesse “questo concetto non è proprio mio”, in altri casi avevo bisogno di esprimere di più il mio modo di pensare. È stata un’interfaccia continua, l’ispirazione è nata così».

Rispetto all’idea originaria, c’è una canzone che con l’intervento di Mina è cambiata più di altre?

«Sono cambiati i particolari tecnici, non altro. Io sono uno che scrive in maniera molto ritmica, stretta, mentre la voce di Mina ha bisogno di spazio. A volte mi sono reso conto che le stavo dando troppe note e troppe sillabe e invece ci sono momenti in cui la sua voce meravigliosa deve decollare. Così, gradualmente, ho capito come potevamo rendere al meglio insieme. È stato come mettere a punto un motore».

Dopo questi anni lontano dalla ribalta musicale, che effetto fa risentire la sua voce alla radio con canzoni nuove?

«Non ho trovato molti cambiamenti o grandi innovazioni, mi sembra che tutti lavorino nello stesso modo di quando avevo lasciato 8 anni fa».

Lei ha cominciato con il rock, poi ha virato su altri generi. Oggi la sua vita che ritmo ha?

«Più maturo e consapevole. Trovo molto più facile guardarmi intorno, vedere le cose con distacco e nello stesso tempo in maniera più limpida. Mi rendo conto che puoi vincere o perdere e non conta niente, puoi avere successo e non averne e non cambia minimamente la tua vita, quello che conta è fare le cose bene, che poi è quello che ci siamo detti la prima volta al telefono Mina e io, “Facciamolo questo disco, siamo padroni di noi stessi, divertiamoci”. Capito? Totale lontananza dall’idea di ricercare il successo a tutti i costi, dall’idea delle classifiche. Adesso ci siamo in classifica, bene, ma non perché l’abbiamo desiderato tanto».

Ha commentato con Mina il successo del disco?

«No, lei è completamente distaccata da queste cose. Come d’altronde io, anche se un po’ meno. Ogni tanto sono tentato di vedere quante copie si vendono, poi mi dimentico di farlo».

La vostra carriera attraversa diversi decenni, come si fa a essere sempre contemporanei, a fare un disco figlio di questi tempi e non legato a un modello del passato, anche se di un passato di successo?

«Senza presunzione credo lo si ottenga “rimanendo svegli”. Io sono sicuro di essere sveglio, nel senso che mi guardo intorno, sto attento a quello che succede, me lo faccio piacere molte volte, mi interesso. Mina altrettanto, è una donna estremamente attenta e nonostante il fatto che viva un po’ distaccata dal mondo, non significa che non segua tutto e non veda tutto. Trovandoci insieme, è venuto naturale essere più avanti della nostra storia, di quanto fatto prima. È successo così, senza sforzo, perché entrambi ascoltiamo moltissima musica, sappiamo quello che accade intorno a noi».

Lei che musica ascolta?

«Moltissimo jazz, abbastanza classica, qua e là anche musica operistica e poi mi piace restare informato sulle novità, apprezzo le band, specialmente quelle inglesi. Ma mi piacciono anche molte cose che succedono in Italia, Tha Supreme a esempio. Non ho nessun tipo di chiusura sulla musica che avanza, mi interessa capire con quali meccanismi è costruita».

C’è qualcuno per cui le piacerebbe scrivere oggi, magari qualche giovanissimo artista italiano?

«Sì, in qualche caso è già successo e se ricapiterà ne sarò contento. Vede, io non ho il culto della intangibilità della mia musica, anzi sono convinto che la musica sia un elemento duttile nel quale si debbano mettere le mani e modificare. Quella che tu fai inizialmente è una registrazione, poi si tende a pensare che in quanto originale sia intoccabile. Non è così. Mi piace molto quando qualcuno modifica certe cose che ho fatto io, magari non sempre vengono bene, però apprezzo l’idea che si possa fare. E la cosa migliore che possa capitare a un autore di musica è poter essere reinterpretato da ragazzi che hanno 20 anni».

Parlava prima della necessità di osservare quanto capita intorno a lei. Che cosa le ispirano questi tempi complicati?

«Mi sembra che in tutti noi ci sia un gran bisogno di speranza e dopo una fase di stasi vedo questi nuovi movimenti, vedo la gente scendere in piazza a migliaia e sono bei segnali, ci dicono che intelligenza e sensibilità non sono state messe da parte. Leggevo questi dati sugli svedesi che sempre più rinunciano agli aerei per ridurre l’inquinamento, vedo Greta Thunberg parlare da pari a pari con i grandi del mondo e sempre più gente che ascolta. Sono, come dire?, una presa di coscienza, qualcosa che fa capire come dopo un periodo lungo di assopimento, si accendono piccole lampadine di intelligenza».

Una sua composizione diventò anni fa la colonna sonora dell’Ulivo. Oggi avrebbe un’altra “Canzone popolare” per accompagnare questi movimenti, magari le Sardine?

«Assolutamente no. I movimenti non hanno bisogno di canzoni, come sinceramente non ne avevano bisogno i partiti. Io, poi, da molto tempo non seguo più la politica partitica. Anche se è vero che la musica è un coagulante, sono convinto che questi giovani e meno giovani che si muovono, che si danno una scossa, hanno solo bisogno del loro coraggio, non di inni».

Con che occhi oggi guarda Genova, la città cui è rimasto sempre fedele?

«La vorrei vedere esclusivamente come una grande, bella città europea. Non mi interessa molto il genere cartolinesco o romantico, mi piace pensare a una Genova incamminata nel futuro. So che questo è il momento in cui la città è ferita, ma le ferite guariranno».

Che cosa vuol dire essere europea? Essere collegata meglio, avere un’apertura mentale diversa?

«Più che altro essere collegata culturalmente, mi verrebbe da dire spiritualmente, all’Europa. Spero diventi una città meta per i ragazzi, per chi ha idee da realizzare. Non faccio un discorso di infrastrutture, di più strade, treni o aerei che servirebbero per crescere. Dico che vorrei diventasse un luogo più presente nella mente e negli obiettivi di chi vive in Europa, offrendo attrazioni economiche, culturali, turistiche».

Questa fase così delicata attraversata di recente dalla città, non è stato uno stimolo a dedicarle una canzone?

«Per adesso direi di no, perché con le ferite ancora aperte sarebbe come scrivere un “Lacrimosa”. Sarei più contento di poter scrivere una canzone sulla felicità e sulla ripresa di Genova, piuttosto che sul dolore».