MUSICA




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MUSICA
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Beatles, la profezia di John Lennon sui grandi concerti


Lo stardom è sempre stata la benzina dell'industria discografica dal vivo, e lo è diventato ancora di più da quando gruppi e cantanti hanno iniziato a guadagnare sempre meno vendendo le registrazioni della propria musica. L'aveva spiegato benissimo il manager dei Metallica Peter Mensch a inizio 2018, raccontando di essere riuscito a compensare il calo dei proventi dalle vendite discografiche con un sensibile rialzo del gettito proveniente dalle attività dal vivo:

"Non abbiamo pubblicato un disco per anni. Ci siamo letteralmente limitati a suonare davanti ai nostri fan. Per le rock band farlo è un dovere. Allora nel corso degli ultimi due anni abbiamo fatto un paio di prove [di aumento del prezzo dei biglietti], e ci siamo resi conto che il prezzo massimo [tollerato dai fan] per un biglietto per un concerto dei Metallica poteva essere molto più alto di quanto non lo fosse. E allora noi lo abbiamo alzato. Su questo da parte del pubblico non abbiamo ricevuto contraccolpi"

E' la legge del mercato, né più né meno: a domanda corrisponde offerta. In un mondo dove la musica registrata diventa sempre più accessibile, è più che plausibile che l'esperienza live - di per sé irripetibile, a differenza delle registrazioni da studio - diventi quella più ambita dal pubblico.

Certo, la fame di live può essere considerata una novità solo riguardo lo sfruttamento sistematico della stessa - esattamente quello attuato da Mensch con i biglietti dei Metallica, ma la fame di fama è ormai storia antica: restringendo il campo alla sola storia del rock, i primi a sperimentare sulla propria pelle la celebrità così come la intendiamo oggi sono stati i Beatles.

I Fab Four furono investiti dall'amore dei propri fan - vi dice nulla la parola Beatlemania? - già nei primissimi anni Sessanta, ma il fenomeno raggiunse proporzioni mai osservate prima dopo l'apparizione, nel 1964, all'Ed Sullivan Show, che fu seguita da qualcosa come 73 milioni di persone. Diventati l'ossessione dei teenager, i quattro di Liverpool furono la prima band nella storia del rock a concedersi un bagno di folla: successe il 15 agosto del 1965 allo Shea Stadium di New York, quando per la prima volta una grande arena venne distolta dalla propria destinazione d'uso naturale - lo sport, nello specifico le partite da baseball - per ospitare un evento di musica dal vivo.


Fu il picco della Beatlemania, con oltre 55mila fan urlanti assiepati sulle gradinate dello stadio. Un record, allora, e una pietra miliare nella storia della musica dal vivo. Eppure, quello fu l'inizio della fine della carriera dal vivo dei Beatles. All'epoca non esistevano gli impianti audio adatti ai megaraduni, e i Fab Four furono costretti a tenere a bada i 55mila dello Shea con amplificatori da 100 watt, del tutto inadatti a sovrastare le urla dei fan sugli spalti.

Al netto della dimostrazione d'amore, per McCartney e soci fu frustrante. Come osservato dal critico e storico del rock Richard Meltzer ai Beatles - così come dovrebbe accadere sempre, ai concerti - interessava che fosse la loro performance a fare la differenza, non loro stessi. Eppure successe esattamente il contrario: ai fan interessavano loro, i Beatles, non la musica che suonavano, sommersa dalle urla dei fan senza che nessuno se ne preoccupasse. Fu questo a far dire a John Lennon:


"Riconosco che potremmo mandare sul palco delle nostre statue di cera e la folla comunque tornerebbe a casa contenta. I concerti dei Beatles non hanno più niente a che fare con la musica: sono solo dei maledetti riti tribali"

E così fu. Stanchi di essere combustibile per isterie di massa, i Fab Four chiusero i conti con i palchi il 29 agosto del 1966 allo stadio di Candlestick Park, a San Francisco.

Quello che potrebbe tranquillamente passare alla storia come l'incubo autolesionista di qualsiasi promoter di alto e altissimo profilo - avere per le mani una macchina da soldi che deliberatamente sceglie di fermarsi - non sarebbe da interpretare come una dichiarazione antisistema, né come un attacco agli organizzatori, che ormai dispongono di impianti capaci di soddisfare platee molto più vaste di quelle degli stadi. Piuttosto, la scelta dei Beatles di chiudere coi concerti ricorda al pubblico una domanda che, di tanto in tanto, sarebbe meglio porsi: ai concerti di grandi e grandissime proporzioni la musica è davvero ancora la cosa più importante? Nell'era dell'esclusività, dell'"io c'ero" a favore di social e dell'aggregazione, siamo sicuri che tutti i possessori dei biglietti staccati per i grandi eventi live siano interessati alla musica? Perché le misure coercitive adottate dai Tool e da altri artisti come Jack White semmai il problema lo segnalano, ma non lo risolvono: ce li meriteremo davvero, un domani, i tour con gli ologrammi?
(dp)