Il Testamento del Capitano è certamente il più antico e famoso canto militare italiano, ancor oggi abitualmente cantato dai soldati.
La sua origine ci viene segnalata da Costantino Nigra, nel suo libro Canti Popolari del Piemonte pubblicato nel 1888 a Torino, con un accurato commento storico nel quale si apprende che il canto era dedicato al marchese Michele Antonio di Saluzzo, capitano generale dellArmata di Francia che morì a Napoli il 18 ottobre 1528 per le ferite riportate nel corso di un combattimento. Il marchese era assediato con le sue truppe nella città di Aversa, bombardata senza posa dalle artiglierie del principe dOrange. Un colpo dobice ferì gravemente ad un ginocchio il marchese ed infranse così anche la resistenza della città senza più guida. Il comandante ferito e prigioniero fu trasportato a Napoli ed umanamente accolto da Alfonso dAvalos, marchese del Vasto che lo fece alloggiare nella casa del Duca Tremoli, dove gli vennero prestate le prime cure. Ma aggravandosi di giorno in giorno la sua ferita e presagendo dessere ormai giunto al termine della sua vita, chiamò attorno a sè i suoi compagni di sventura, ad alcuni dei quali lasciò il denaro necessario per pagare al nemico la taglia del loro riscatto, e dettò in presenza loro il suo testamento, che diventerà leggendario nelle cronache popolari, per il desiderio simbolico di dividere il suo corpo per ricordare gli ideali e gli affetti della sua vita.
La notizia della sua morte fu portata in Piemonte dai reduci che avevano militato al suo servizio, suscitando profonda emozione fra le popolazioni del Saluzzese, del Monferrato e del contado di Asti di cui era governatore.
In questi territori nacque quindi la canzone che narra del leggendario
TESTAMENTO DEL MARCHESE DI SALUZZO
Sur capitani di Salüsse là tanta mal cha mürira.
Manda ciamè sur capitani, manda ciamè li so soldà;
quand cha lavran muntà la guárdia o cha landèisso ün po' a vedè.
I so soldà jàn fáit risposta cha làn larvista de passè.
Quand cha lavran passà larvista, sur capitani andrio vedè.
Coza comandlo, capitani, coza comand-lo ai so soldà?
Varicomand la vita mia che di quat part na débie fà.
Lè düna part mandè-la an Fransa e düna part sül Munferà.
Mandè la testa a la mia mama cha saricorda d so prim fiöl.
Mandè l corin a Margarita cha saricorda dël so mur.
La Margarita in sü la porta lè cascà n terra di dolur.
Il canto si propaga lentamente lungo la pianura padana sino al mare. Se esaminiamo attentamente le varie versioni poetiche, collegandole con le zone nelle quali sono state raccolte, possiamo seguire con facilità levolversi di uno stile subalpino verso forme liriche tipicamente italiane.
Tra i numerosi esempi di varianti, interessante quella raccolta nel Trentino dal colonnello Nepomuceno Bolognini e pubblicata nel 1886 nel XIII Annuario della Società Alpinisti Tridentini.
Sior Capitano della Salute,
che sé malato a far lamor
ghe manda a dire ai suoi soldati
che i lo venga a ritrovar.
Li suoi soldati i ghe manda a dire
che no ghe barca da imbarcar.
Ghe sia barca, no ghe sia barca
li miei soldati li voglio qua.
Alla mattina ben a bon ora
li suoi soldati i era là.
Cosa l comanda, sior Capitano,
che l nha mandati a richiamar?
Ve raccomando questa mia vita
che in quattro parti la sia taglià;
la prima parte al Re di Francia
e la seconda al battaglion.
E po la terza a Margheritina
che la se recorda dellamor;
e po la quarta a la mia mamma
che la se recorda del so figliol.
Margheritina lé sulla porta,
la casca n terra dal gran dolor.
Leva sù, leva sù Margheritina
che lé qua l tuo primo amor.
Se mi scampassi anca centanni
mai più lamore coi militar.
La canzone non si è spinta soltanto fra le aspre montagne del Trentino ma ha raggiunto anche i più dolci colli dellAppennino, come può documentare questa versione raccolta nel 1889 in Umbria M. Barbi.
Capitano de Fiorenza samalado e sta per morì.
Nnate a chiamà li miei soldati, che me vengheno a rivedè.
La mia vita ve raccomando, quattro parte se nhanno da ffà.
Una parte portatela in Francia, e quellaltra allimperatò.
La testa a la mia mamma, cha patito il gran dolò.
Il corino a la Margarita, se ricordi del suo amò.
Se io campassi altri cento anni, non farebbi più a lamò.
Per una volta che lho ffatto, ho patito l gran dolò.
E come il fluire del nostro maggior fiume che ha le sue sorgenti al Monviso nel Saluzzese e sfocia nellAdriatico. Dal Monferrato (Sur Capitanhe du Milizie) al Trentino (Sior Capitano della Salute), giungiamo a Pontelagoscuro (Sior Capitani che beve lacqua), a Massa Ravennate (Sior Capitano delle Galere) per concludere infine nel Veneto devastato dalla grande guerra, con il motivo Il Capitano della Marina.
Il Capitano della marina è ammalato che vuol morì.
Lui manda a dire ai suoi soldati che lo vadano a ritrovar.
I suoi soldati gli fan sapere che non han barche da imbarcà.
O colle barche o senza barche, i miei soldati li voglio qua.
Cosa comanda, signor capitano (che noi siamo adesso arrivà?).
Io comando della mia vita, e quattro parti si hanno a far:
la prima parte al Re dItalia, seconda parte al battaglion,
la terza parte alla mamma mia che si ricordi del suo buon figliol,
la quarta parte allamante mia che si ricordi del suo primo amor.
Nel corso della guerra la canzone ebbe diverse variazioni, la prima delle quali è stata certamente quella dedicata al Capitano della Centuria Lazzaro De Castiglioni comandante la famosa Centuria Valcamonica reparto ardito che ebbe vita breve e gloriosa nel 1915.
Le variazioni riguardano solitamente il grado del comandante (maresciallo, tenente, capitano, ecc.), i mezzi di cui sono mancanti i soldati per raggiungere il loro comandante (le barche, la corda, le scarpe), i pezzi in cui dovrà essere diviso il corpo che in alcuni casi raggiungono anche il numero di sette.
La canzone comincia così:
Il capitano della compagnia
lè ferito, sta per morire,
e manda a dire ai suoi alpini
che i se lo venga a ritrovar.
Ha acchiappato la sua scheggia, la sua pallottola, il signor Capitano. Se lè presa che bestemmiava in testa alla compagnia, faccia dura, occhi aridi; in quei momenti che restano poi fotografati in mente per leternità, chi è scampato; sotto le sventole della mitraglia, sotto le frustate delle pallottole, quando il suo ruolo è come un campo elettrico e il cielo abbacina tanto che non si può guardarlo. Lhan portato giuù in barella, il signor Capitano, se cera il sentiero; o forse lhan calato giù con le corde per la parete, con la sua povera carne insaccata alla meglio; o lhan rannicchiato sulla teleferica, dove sha la fortuna di andare in giostra alla morte.
(A quel soldato che tornava dalla licenza in un vagoncino di teleferica scoppiò uno shrapnell sulla testa, e dalla paura gli cadde il fiasco, che andò a rimbalzare e a fracassarsi sul nevaio là sotto, testone rosso che segnava tutta la neve; e dicevano i soldati della stazione darrivo che giravan la manovella: Madona, varda quel poareto che i gà portà via la testa! Varda la testa come che la va rotolon zo par la neve! O poareto chel rivarà qua via sensa testa!).
E nella sezione di sanità sotto al roccione il tenente medico ha scoperto il corpo del ferito e ha veduto che non cè più niente da fare. Il signor Capitano ha capito; e allora vuol fare testamento, che questa sì che è una bella eredità da lasciare a chi tocca, tanta salute che cera nel petto, e tante canzoni nel cuore, e quegli occhi che carezzavan la roccia, e quei muscoli che la stringevan forte, e quelle memorie semplici, la vecchietta lasciata a casa, lamorosa, che bastavano a consolare della sorte. Dottore, qua carta e penna per il rògito, e notai siamo i superstiti della compagnia, che vengan giù dalla cima. Fonogramma urgente al Comando della 265^ compagnia. Ordino che i miei alpini vengano giù alla sezione di sanità. Firmato: il capitano Bianchi.
E i suoi alpini ghe manda a dire
che i no gà scarpe da traversar.
Non hanno scarpe, chè ne hanno gettato un sacco sul nemico per lultima difesa insieme con i sassi della cima; e quelle che hanno son quelle dei signori fornitori, che ad andar sulla neve paiono cartone in molle. Ma sono scuse queste, pelandroni? Il vostro Capitano vi chiama e voi tirate fuori delle storie per non uscir dal saccopelo, che lo so bene che ve lo siete meritato, dopo la notte di battaglia; ma son scuse codeste?
O con le scarpe o senza scarpe
i miei alpini li voglio qua.
E co fu stato alla mattina
i suoi alpini sono rivà.
Sempre così, questi bravi ragazzi; a tirar ostie, a ribellarsi, a bestemmiar la naja e i superiori, sempre pronti, al primo momento; non sono soldati da libro di lettura, guai perderli a esempio di belle maniere; ma poi, dopo che si son convinti, tutto cuore, tutta disciplina.
Cossa comàndelo, sior capitano
allora adesso che semo riva?
Ed io comando che la mia vita
in sette pezzi sia da spartir.
Comincia il testamento. Sergente Munerol, bene attento a non sbagliar lordine dei legati, anche se la barbaccia sporca le trema di commozione; caporal maggiore Zamai, non ne costruirai una sola di bare per il capitano, ma tante, e tutte con lindirizzo, che non vadan smarrite: Al signor Re dItalia, Roma (palazzo reale); alla signorina Leontina Cecchet, Mezzaterra 21, Feltre; e così via. E voi altri silenzio nei ranghi.
Dottore, un fià di grappa, che anche a me mi duri il fiato finchè ho finito di disporre delle cose mie, del corpo mio, che fu fatto abile di leva, che bagnai alle piogge, che macerai nel fango, che temprai nel vento e nella neve; e lo coprivo di panno da truppa e del cappello con la penna, un po' schiacciato davanti; e per civetteria avevo la camicia di flanella verde e il moccichino verde fuori dal taschino, il corpo che mamma mi fece, e fu così fiera a non piangere il giorno che lo vide andare a guastarsi alla guerra; ma dentro che strazio, povera mamma, e come aveva ragione di presentire disgrazia.
Fatene dunque sette pezzi del mio corpo:
Il primo pezzo al Re dItalia,
secondo pezzo al battaglione,
il terzo pezzo alla mia mamma
che si ricordi del suo buon figliuol.
Così finora ha disposto secondo giustizia, il signor Capitano; prima di tutto il Re, che comanda alla guerra e alla pace, e ha facoltà di prendere la vita della gente per giovare alla vita dellaltra gente che resta; dopo, il battaglione, la nuova famiglia che lega più di quellaltra, con i turni misteriosi di battaglia e di riposo, famiglia di tanti fratelli che hanno tutti lo stesso precetto in tasca, e chi parte prima e chi parte dopo, ma a uno a uno tutti se ne vanno per una strada nera senza osterie ai lati, senza fuoco e paglia fresca allarrivo. E terza la madre, che ha perduto ogni diritto sul suo buon figliuolo, e non le resta che il conforto di piangerlo, e la medaglia da portare in giro nelle cerimonie accoranti. Ma poi anche lamorosa deve avere il suo pezzo, essa che gli ha dato così tenero viatico dabbracci alla partenza; e allora scriva sergente:
Il quarto pezzo alla mia bella,
che si ricordi del suo primo amor.
E adesso basta con gli uomini, basta con le care donne, altre amorose ci sono, che hanno stregato con più sottile incantesimo il cuore, con più feroce egoismo hanno domandato il sacrificio più grande, ma seppero poi promettere e concedere divine ricompense. Letti di sasso, morsi di ghiaccio, canzoni di vento, criniere di nuvole; risate di civetteria sullorlo dei ghiacciai azzurri, languori di sole sul nevaio intorpidito come in fondo a un letto di piume: selvagge amorose! e giocavano a palle di neve con le valanghe, e alla sassaiola per i ghiaioni. Quando davano lappuntamento, le amorose prepotenti, non ceran versi, si dava un cane alla ragazza e si partiva con corda e picozza con il cuore pieno; e quando la guerra le avvolse, esse non furono che più seducenti e più ineluttibili. Le rivede a una a una le sue montagne, il Capitano che sta per morire; montagne civettine, fiorite di stelle alpine; montagne intravedute ai limiti dellorizzonte avviluppate in veli azzurri; montagne imboscate che assistevano ai combattimenti di lontano, con tanta ingannevole promessa di pace. E le montagne maledette che furono come le cose insaziabili del Salmista, e che dicevano al sangue: ancóra, ancóra; che divennero calve in una notte di tempesta, che fumarono come tizzoni sotto la pioggia, che mutaron volto, che lanciarono fino al cielo e al piano le loro scaglie; dove il sacrificio fu oscuro, dove la gloria fu inutile dono per i morti. A queste vuol dare il Capitano gli altri pezzi del suo corpo, udite, udite:
Il quinto pezzo alle montagne
che lo fiorisca di rose e fior.
Il sesto pezzo allOrtigara
che lè la tomba di noi alpin.
Settimo pezzo al Montenero
che lè la gloria di noi alpin.
E con ciò il testamento è finito. Può morire sereno, il signor Capitano; che i suoi legati andranno a chi li deve avere, e del suo testamento i suoi soldati faranno unaccorata canzone da cantare la sera attorno ai fuochi, quando il gelo slitta giù per i canaloni e mette nelle ossa tanto malinconico presagio di morte; o le altre sere che si sveglia attorno a un rosso di vino e di memorie, quando il passato che fu sì fiero e atroce appare, trasfigurato dalla lontananza, un soave paradiso perduto.
PAOLO MONELLI
Fonte: dal libro Cantanaja di Luciano Viazzi / Augusto Giovannini - Tamari Editori - Bologna