MUSICA




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Che cosa ci perdiamo ascoltando musica in digitale

Che cosa ci perdiamo ascoltando musica in digitale
Smartphone e Spotify escludono dal suono tutto quello che non sembra (ma è) necessario: lo spiega bene Ascoltare il rumore di Krukowski.

DI HAMILTON SANTIÀ
18/08/2019

Qualche anno fa stavo spulciando i dischi a un mercatino con un mio amico più grande. Ero giovane e mi ero appena aperto al feticismo del vinile — soprattutto perché ai mercatini costavano poco, e personalmente devo molta della mia educazione musicale a due negozi di dischi torinesi, uno serio, molto attento all’indie, il tipo di negozio che tutti gli amanti di musica vorrebbero avere sotto casa; e un negozio di collezionismo che, però, essendo specializzato in musica leggera italiana, era da un lato capace di spararti cifre improponibili per dischi che dal mio punto di vista non avevano nessun interesse e figuriamoci valore (ho sentito con queste orecchie una valutazione di oltre 100 euro per singoli di Adamo, e sentire in tutta risposta “ehilà, perbacco, è pure conveniente!”) e dall’altro quindi lasciare i fondi di magazzino a 2, 3, 5 euro: fondi di magazzino dove ho trovato letteralmente tutta la new wave del mondo, l’indie più assurdo, il jazz più malato, e al proprietario non interessavano!


Insomma, sono un ragazzo fortunato e capite come mai sono diventato feticista del vinile anche se con il tempo ho imparato a fare la tara sfatando il luogo comune per cui “in vinile si sente meglio” (tutte palle, e poi la più grande truffa del rock and roll è vendere a gonzi come il me di qualche anno fa patacche ristampate a 180 grammi spacciandole per Collectors quando in realtà si trattava di meri riversamenti da digitale a vinile, bella forza!, ma forse sto divagando un po’ troppo) — e mentre stavo brandendo una copia di Second Edition dei PIL, la versione economica del ben più famoso Metal Box, il mio amico si avvicina con fare saputo e mi dice “costa troppo per quello che c’è dentro”. Ora, in tempo pre-download (o per lo meno pre-ADSL) non era automatico che si potesse ascoltare immediatamente qualsiasi cosa, ma se leggevi le riviste sapevi benissimo che il secondo disco dei PIL era considerano uno dei lavori più importanti di tutti i tempi. Come poteva il mio amico liquidare quel disco in quel modo? Compreso il mio sbigottimento mi disse: “Quella è un’edizione economica, si sente diversamente, è come se fosse un altro disco. Il Metal Box è su tre dischi a 12 pollici e c’è un motivo: non è solo estetico, è anche fisico. Le linee di basso di Jah Wobble sono talmente elaborate, prodotte GROSSE che occupano troppo spazio e quindi c’era bisogno di solchi più larghi e più dischi.” Ero rimasto di sasso. Per la prima volta avevo capito che il suono era una faccenda fisica.

Chiunque abbia iniziato ad ascoltare musica prima di questa epoca di bassa intensità in cui tutto viene filtrato dalle casse degli smartphone, dalla riproduzione ottimizzata anche degli streaming su Spotify e ha avuto a che fare con un equalizzatore (di solito era quel coso con le levette che non sapevi come usare nello stereo in salotto) sa perfettamente che spostando gli indicatori il suono cambia in modo percettibile. Le frequenze hanno a che fare con le percezioni e con la fisicità nel tempo e nello spazio. Il suono è un elemento ricco, pieno di sfumature impercettibili e quasi identiche, elementi che non servono e che agiscono in sottofondo.


Quando nasce l’mp3 (avviando così una rivoluzione che è solo in parte industriale, anche se quello è l’effetto più visibile: per una panoramica sul fenomeno consiglio di recuperare Free di Stephen Witt, edito da Einaudi) la possibilità di riversare la ricchezza del suono dentro un formato digitale leggero e divulgabile con relativa facilità viene accelerata dalla trovata di annullare le sfumature di suono uguali, togliendo di fatto tutto quello che non serviva, agendo su frequenze impercettibili dall’orecchio umano. Un suono totalmente privato del “rumore” (banalizzando, l’informazione inutile) e ridotto a purissimo “segnale” (altrettanto banalizzando, l’informazione utile).

È dalla mancanza di questo dialogo nella riproduzione digitale che parte la riflessione di Damon Krukowski in Ascoltare il rumore (Edizioni Sur, traduzione di Chiara Veltri). Batterista prima dei Galaxie 500, poi di Damon & Naomi, Krukowski è studioso e autore di articoli diventati virali sul ruolo della musica, sul suo rapporto con l’economia e su quanto il mercato digitale impoverisca l’informazione musicale appiattendo tutta la ricchezza e la ricerca dietro le canzoni (oltre che dare paghe da fame per ogni stream, ma qualsiasi musicista indie onesto con se stesso vi confermerà che (a) con i dischi non si sono mai fatti soldi; (b) quando è arrivato Napster erano tutti contenti perché così potevano essere ascoltati da molta più gente — lo stesso Krukowski lo dice: “sono stato frainteso, a me piace che la musica sia molto più disponibile di un tempo”), oltre che rendere il suono una sorta di pappa omogenea fatta solo di “segnale”. Se il digitale è più freddo non è perché l’analogico è meglio, ma perché l’analogico raccoglie tutta la ricchezza del suono mentre si produce. Con il rumore che è parte integrante di quello che si va a sentire.


In Ascoltare il rumore, infatti, Krukowski prende come esempi casi esemplari della registrazione pop come Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band dei Beatles, o Pet Sounds dei Beach Boys, spiegando come il loro uso dello studio di registrazione come uno strumento avesse permesso di raggiungere ricchezze di suono proprio grazie a tutto il “rumore”, l’informazione gratuita non necessaria, contenuta fisicamente su quei nastri. Ma anche il lavoro sulla stereofonia dei Pink Floyd in The Dark Side of the Moon che negli anni Settanta usano il suono come determinante spaziale. Spiega come l’evoluzione tecnologica dei microfoni, capaci di catturare una vasta gamma di frequenze con un processo elettrico sulle vibrazioni dell’aria che sono le onde sonore, abbia aiutato la ricerca della ricchezza della voce nel canto di Frank Sinatra. Oppure come i Can, maestri tedeschi del *****rock, una notte decisero di lasciare gli strumenti accesi in sala e lasciare che “suonassero da soli” componendo musica di solo rumore in modo spontaneo (del resto, il suono, il segnale e il rumore si muovono in maniera autonoma senza controllo: cosa sono i fischi del microfono quando parlate troppo vicini alle casse, o il feedback che si crea con la chitarra elettrica?).

In questi aneddoti c’è molto di più che un semplice racconto di come si faceva la musica una volta. Perché il discorso di Krukowski, più che essere nostalgico, vuole essere di consapevolezza. In questo periodo di bassa intensità ci stiamo perdendo tantissime cose. E appiattire il suono in favore di una nitidezza e una rumorosità d’impatto rischia di rendere la musica meno dinamica, più povera, funzionale ma non totalmente appagante.

La conseguenza di questa rivoluzione, secondo Krukowski, è anche un completo riadattamento della realtà in cui viviamo. Una realtà, appunto, funzionale, in cui giorno dopo giorno ci alleniamo a non percepire e interpretare il “rumore” per restare nel puro “segnale”. L’informazione funzionale, utile all’obiettivo, che non prevede variazioni o sorpresa. Una sorta di iper-soluzionismo di cui il suono diventa perfetta sineddoche. Dall’annullamento del rumore di fondo alla rinuncia a qualsiasi tipo di flânerie che possa far conoscere qualcosa che si ignorava: non solo la rigidità delle indicazioni del GPS, ma anche la rinuncia alla flânerie mentale — si pensi ai suggerimenti algoritmi di Spotify o di Amazon — e la riduzione di ogni informazione, anche mediatica, all’utile.

Ma se è vero che il “rumore”, per Krukowski, rappresenta una parte fondamentale per dialogare con il “segnale”, creando quel perturbante cui stiamo facendo sempre più a meno, allora bisogna tornare se non altro a un esercizio di consapevolezza. Non tanto nello studio di registrazione, quanto nella vita di tutti i giorni, in cui ormai siamo così abituati a leggere i segnali che ci siamo dimenticati di tutto quello che non vediamo. Tutto questo partendo dalle canzoni e da come vengono riprodotte sui nostri telefonini. Non male, vero? Alla fine questi puntini rossi si legano tutti e ci stanno dicendo una cosa: stiamo perdendo un po’ troppi dettagli nella nostra ostinata ricerca dell’utile, del funzionale, del quantificabile. La ricchezza, invece, si fonda lì dove si perde tempo a cercare nuove vie di ottenerla, facendo anche tantissimo, inutilissimo, non funzionale, rumore.

Cosa c’entra questo con Jah Wobble, i PIL e i mercatini dell’usato? Non ne sono sicuro, ma mentre sto finendo questo articolo ho messo su il disco su Spotify e al netto della sua oggettiva grandezza si sente che manca qualcosa. Se certe idee e certi suoni hanno avuto la forza di sconvolgere il mondo — o il mondo di chi lo aveva ricevuto: sappiamo benissimo che i PIL non hanno certo venduto quanto Elvis, ai tempi — è stato anche per la possibilità di farsi vedere, ascoltare e capire in tutta la propria progettualità. Lasciare il “rumore” nello sgabuzzino della storia equivale a pensare che tutto quello che non si può quantificare nel qui e ora non serva a niente.