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Le origini calabresi di Mary Pirimpò e l'ispirazione di De Andrè


Le origini calabresi di Mary Pirimpò e l'ispirazione di De Andrè


di Anna Foti – “(…) Questa è la tua canzone Marinella che sei volata in cielo su una stella e come tutte le più belle cose, vivesti solo un giorno, come le rose”. Tra leggenda e verità fluttua in un fiume milanese, come il corpo martoriato di una giovane donna calabrese tradita da tutti e tutto, che nessuno avrebbe neppure mai cercato, l’ispirazione primordiale del cantautore genovese, morto a Milano nel gennaio del 1999, ricordato come il poeta degli adorabili perdenti, il cantore degli ultimi, Fabrizio De Andrè, chiamato Faber dall’amico di sempre Paolo Villaggio. Naufraga come i sogni infranti e il cadavere profanato da diversi colpi di pistola della ragazza venuta da lontano, come quelle umiliazioni quotidiane, quel dolore fatto di una speranza calpestata giorno dopo giorno e che Fabrizio De Andrè tentò di riscattare con “La canzone di Marinella”. Quei versi vollero offrire musicalmente luce ad una realtà buia e disperata, restituendo una donna non abbandonata a sé stessa, senza identità, alla quale venne sottratta anche la borsetta con i soldi e quell’assicurazione che da sola rappresentava per lei e la sua famiglia un brandello di futuro, ma una donna rimpianta e cercata ancora da un re senza corona e senza scorta che sarebbe tornato a bussare alla sua porta; una donna non giacente sola sul marmo freddo dell’obitorio e riconosciuta solo da un’altra donna di strada, ma invece condotta sopra una stella. “(…) Questa di Marinella è la storia vera che scivolò nel fiume a primavera, ma il vento che la vide così bella, dal fiume la portò sopra a una stella (…)dicono poi che mentre ritornavi nel fiume chissà come scivolavi e lui che non ti volle creder morta bussò cent’anni ancora alla tua porta (…)” .
Facendo suoi quel dolore e quell’amaro disincanto, quel giovane trovò il suo destino di interprete arguto, guidato nella sua scrittura musicale da un’ispirazione aderente ad una realtà vissuta senza riserve e guardata in ogni sua molteplice sfaccettatura. Un’ispirazione appassionata e dissacratoria, ora come allora, che rivela oggi più che mai tutta la propria forza anticipatrice di pulsioni della contemporaneità e di mutamenti sociali all’epoca solo intuibili con arguta sensibilità.
Pare, infatti, che la giovane donna, Maria Boccuzzi, in arte May Pirimpò, originaria di Radicena, frazione di Taurianova in provincia di Reggio Calabria, fosse la Marinella cantata da de Andrè. Nata nel 1920, aveva solo nove anni quando aveva lasciato la Calabria. Il primo impiego era stato in una fabbrica di tabacchi prima dei suoi tenaci tentativi di realizzare il suo sogno di diventare una ballerina. Bella, tenace, avvenente, non riuscì tuttavia ad andare oltre l’avanspettacolo. Abbandonata dall’uomo di cui si era innamorata, cadde in una girandola che presto la stritolò, confermando per lei quel destino di povertà dal quale aveva cercato di affrancarsi lasciando la Calabria. I suoi sogni presto naufragarono prima sui marciapiedi e poi nel fiume Olona, in quella fredda notte d’inverno del 1953 che De Andrè trasformò in una tiepida giornata di primavera.
Al Nord per cercare amore e fortuna, fu invece trovata da una morte terribile, ancora oggi e nonostante le indagini condotte un delitto impunito avvolto nel mistero e consumatosi nel gennaio del 1953, quando il suo corpo martoriato, con gioielli e un trucco sbiadito a suggellare una decadenza non sua ma specchio di quella umanità degradata che non aveva colto in lei lo splendore, era stato rivenuto riverso sulle sponde del fiume Olona. In un’intervista rilasciata anni dopo Fabrizio De Andrè, parlando dell’ispirazione de “La canzone di Marinella”, aveva riferito di una storia che lo aveva scosso. Rispetto a quel destino così crudele e impietoso, a quella vita ingrata, avrebbe voluto almeno riscattare la morte di quella donna. Ecco l’umanità vibrante che palpitò nel cuore di Faber, guidando la sua mano nella stesura su carta e spartito di una delle liriche portanti della sua poetica musicale.
“Le canzoni servono a formare una coscienza. Sono una piccola goccia dove servirebbero secchi d’acqua. Cantare, credo, che sia un ultimo grido di libertà.Forse il più serio. Scrivere canzoni sta diventando una responsabilità sociale, ma se ne sono accorti in pochi. Esse entrano a far parte del patrimonio culturale di un popolo, sono parte della coscienza. Sentii fin da subito che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l’ansia di una giustizia sociale che ancora non esiste e l’illusione di poter partecipare in qualche modo, ad un cambiamento del mondo. Quest’ultima si è sbriciolata presto, la prima, invece, rimane”. Fabrizio De Andrè (Genova 18 febbraio 1940 – Milano 11 gennaio 1999)
Era convinto di questo Faber. La responsabilità di scuotere le coscienze matura con la consapevolezza dell’esistenza di uomini e donne il cui riscatto è impedito e dell’inesistenza di poteri buoni. Per chi come, Fabrizio De Andrè, possedeva il dono di musicare versi, allora la responsabilità è stata quella di scrivere canzoni per prendere atto dell’esistenza di questi uomini e di queste donne che la società rendeva invisibili e dove invece traboccava e palpitava l’umanità. “(…) Ama e ridi se amor risponde, piangi forte se non ti sente, dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior” (“Via del Campo”). Forse è proprio questa l’essenza di quella goccia di splendore che è la sua ispirazione semplice e quotidiana, universalmente sentita e resistente al tempo, tradottasi in un pensiero complesso. Padre di Cristiano, nato dal primo matrimonio con Enrica Rignon, De Andrè fu maestro che seppe dare un senso profondo, indimenticato ed indimenticabile alla sua musica attraverso la voce degli emarginati di una società quasi sempre avara di giustizia sociale. Nel decennale della sua morte la sua città natale, Genova, omaggiò la sua ricca eredità musicale e la sua vita con una mostra a palazzo Ducale, promossa dalla fondazione Cultura dello stesso palazzo Ducale e dalla fondazione Fabrizio De Andrè onlus.
Cinque le sale allestite (Poetica – Musica – Personaggi – Vita – Cinema) per raccontare con suoni, immagini e canzoni l’anima della sua poetica e la profondità della sua vocazione musicale; un allestimento che seppe coniugare la sua voce, i suoi scritti e le sue foto in un percorso interattivo nei luoghi più rappresentativi della sua vita. Ogni tappa rappresentò un’emozionate esperienza e regalò al visitatore una straordinaria opportunità di condivisione.
Nella prima sala della Poetica, è proprio la sua Genova, città di mare per antonomasia, riflessa in quel tratto di mar Mediterraneo e protesa verso il suo storico porto, il più grande d’Italia, ad aprire il suggestivo viaggio, progettato e realizzato da Studio Azzurro, nella vita e nelle parole di Fabrizio De Andrè.
Interprete singolare dei Dieci Comandamenti Cristiani ne “Il Testamento di Tito”, Faber celebrò la morte nella “Preghiera in gennaio” e narrò nell’album “La Buona Novella” la vita di Gesù Cristo, come la storia del più grande uomo emarginato e rivoluzionario, battutosi per gli ultimi. Sospettato di essere un simpatizzante delle BR, il titolo delle sue grandi raccolte musicali, “In direzione Ostinata e Contraria”, incarnano quel suo spirito disobbediente ma pregno di quella disobbedienza che Don Milani Comparetti, educatore italiano, definiva una testimonianza virtuosa.
Dall’articolo apparso su Strill.it il 6 giugno 2009, riproponiamo il racconto in dettaglio della mostra genovese per il decennale della morte di Faber.
PRIMA SALA: LA POETICA.
La prima sala introduce proprio i temi principali delle sue canzoni. Da Genova, attraversata da viuzze intrecciate e palpitanti tra la “Via del Campo” e la scintilla di rivelazione racchiusa in quella chiosa dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori, all’amore che metteva “Bocca di Rosa”, dalla “Guerra di Piero” all’anarchia di un Sessantotto vissuto con pienezza e convinzione ma senza violenza, dagli ultimi dei campi Rom tra cui le spose bambine per cui è venuto il tempo di caritare di “Khorakhane” alla morte da cui può ancora salvarsi chi ascolta i silenzi che la sera raccoglie nel “Cantico dei Drogati”. Sei schermi raccontano i singoli temi mentre la postazione originale (microfono, sedia con giacca blu, leggio e lampade) della sua tournèe “Le nuvole”, testimonia un passaggio che è ormai traccia indelebile nella storia della musica italiana. A far da cornice i suoi spartiti originali. Sui muri, un fiume di parole scorre sul filo della sua calligrafia. Spiccano tra queste la versione spagnola di “Smisurata Preghiera” (“Desmedida Plegaria”) tradotta dal poeta colombiano Alvaro Mutis, e “Crueza De Ma”, in dialetto gallurese, definito dalla critica il più bello e significativo brano degli anni’80. Il dialetto genovese e il dialetto sardo hanno nutrito le parole di questa lirica. La sua permanenza in Sardegna cominciò nel 1974, anno in cui lasciò Genova per trasferirvisi. Alla terra sarda è anche legata la drammatica esperienza, nel 1979, del sequestro con Dori Grezzi, sua moglie dal 1989 e compagna dal 1974. Un’unione da cui nacque Luvi nel 1977.
SECONDA SALA: LA MUSICA.
Nel periodo del boom economico e della società del benessere, la figura di Fabrizio De Andrè spicca per la passionalità con cui canta l’amore e la libertà e per una ricerca musicale che ha creato una lingua capace di comunicare ad ogni generazione. La seconda sala dell’esposizione è dedicata proprio alla sua produzione discografica esplorabile attraverso tre tavoli di legno interattivi che raccontano la storia di ogni disco. Il visitatore sceglie la riproduzione e, ponendola su questo tavoli interattivo, può ascoltarne le caratteristiche. Dai primi 45 giri prodotto da Karim, con matrici originali, locandine ormai introvabili e foto scattate da chi ha seguito da vicino Fabrizio e la sua carriera, agli album più famosi come “Volume I” (1967), “Nuvole Barocche” (1969), “Buona Novella” (1970), “Non al denaro, non all’amore né al cielo” (1971), libero adattamento delle poesie di Edgar Lee Musters, tratte dall’”Antologia di Spoon River”, sulle musiche composte con Nicola Piovan. Poi ancora “Storia di un impiegato” (1973), album senza titolo noto come “L’indiano” ( 1981), “Creuzà de ma” (1984), “Le nuvole” (1990).
Uomo e artista il cui percorso ha raccolto l’eredità delle canzoni quando erano narrazione di storie accompagnate da uno strumento musicale e trasformate, soprattutto dai canzonieri francesi, in un’armonia in cui pari dignità hanno musica e parole. De Andrè fu anche di queste storie, fedele interprete. Primo traduttore di Georges Brassens, la passione musicale di Faber crebbe con le frequentazioni di Gino Paoli, Luigi Tenco e Umberto Bindi. Condensando le atmosfere francesi con le tematiche sociali, nacque la sua identità di artista. De Andrè collaborò in seguito con grandi esponenti del panorama musicale italiano come Franco Battiato, Lucio Battisti e poi Ivano Fossati e Francesco De Gregori con cui condusse delle esperienze di collaborazione suggellate dai dischi “Volume sette”( 1975) e “Anime salve” (1996), il suo ultimo lavoro.
TERZA SALA: I PERSONAGGI
Nonostante le sue origini appartenessero agli ambienti alti della borghesia genovese, Faber ha ritratto nelle sue canzoni prostitute, zingari, barboni ed emarginati. Eroi sconfitti la cui vitalità affida ai tarocchi la propria voce dopo avere esaurito le parole. Ed è proprio l’abbinamento ai tarocchi a rappresentare la chiave di immedesimazione attraverso la quale, in questa sala, i visitatori esplorano i diversi personaggi che Fabrizio De Andrè ha celebrato attraverso le sue canzoni. Il matto, Princesa, Sally, Bocca di Rosa, Nina, i rom, il pescatore, un viaggio tra questi ultimi di cui ha cantato la grandezza e l’emarginazione. Come nelle pagine di Italo Calvino, si incrociano i destini di personaggi come il giovane Geordie in fuga con la testa di cervo, Marinella e i suoi passi di danza che non sconfinano da un carillon, il soldato burattino Piero e Nancy in equilibrio su una fune.
QUARTA SALA: LA VITA
Come operatori di ripresa delle scena di vita di Faber, ciascun visitatore inserisce in tre banchi ottici sorretti da treppiedi una lastra trasparente che riproduce frammenti e testimonianza di vita del cantautore genovese. Come fossero lanterne magiche da cui attingere barlumi di un’esistenza ancora vibrante. Proiezioni di immagini e video interviste che raccontano la sua spiritualità, il suo animo ribelle e contestatore, il suo disincanto e la sua instancabile speranza. Raccontano un successo arrivato negli anni Settanta, quando già era padre di Cristiano, che poi crebbe nel tempo fino al duetto con la cantante statunitense Joan Baez sulle note di Geordie.