MUSICA




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Addio a Charles Aznavour, l'ultima intervista a «Vanity Fair»


Si è spento a 94 anni il grande cantautore e attore francese, che ha venduto più di 300 milioni di dischi in tutto il mondo. Lo ricordiamo con un dialogo uscito sulla nostra rivista
Lunedì 1 ottobre è morto all’età di 94 anni il cantante francese Charles Aznavour: per l’occasione, ripropoponiamo una delle sue ultime interviste, rilasciata a Vanity Fair nel settembre del 2016


Milano, caldo soffocante. Charles Aznavour ha 92 anni ma è appena tornato da un pranzo al ristorante Conte Ugolino, dove ha mangiato lo spezzatino in umido, il piatto che ordina sempre quando viene in città. Stasera solo uno yogurt e una banana o forse nulla, fa così da sempre. «Colazione e pranzo abbondante, la cena si salta: abitudine da teatrante, ma che si rivela molto salutare», spiega.

Ha scritto 1.400 canzoni, tradotte in tutte le lingue, si è sposato tre volte, ha avuto sei figli. Ha recitato in film di François Truffaut ed è stato amico di Edith Piaf e Marlene Dietrich.

Sopravvissuto all’occupazione nazista di Parigi ma anche all’avvento di rock ’n’ roll, free jazz e punk inglese, sarà in concerto all’Arena di Verona il 14 settembre e poi, a fine mese, si ritirerà in studio per lavorare a un nuovo album che dovrebbe uscire a dicembre, «ma senza canzoni natalizie». Sto per intervistare l’uomo che, per intenderci, ha cantato per i consapevoli cornuti «E io tra di voi/ se non parlo mai/ho già visto tutto quanto/ ed io tra di noi/ capisco che ormai/ la fine di tutto è qui» e per i mitomani «io sono un istrione/ ma la genialità è nata insieme a me/ nel teatro che vuoi/ dove un altro cadrà/ io mi surclasserò». Ha scritto She, colonna sonora del film Notting Hill che, nella versione in italiano, fa «Lei/ la canzone nata qui /che ha già cantato chissà chi/ l’aria d’estate che ora c’è/nel primo autunno su di me». Sua anche Com’è triste Venezia che, in uno spettacolo, il comico Paolo Rossi citava per poi aggiungere «Perché no ti ga mai visto Monfalcon».

Charles Aznavour mi fa notare che ho un ciuffo dei capelli in disordine e me lo fa rimettere a posto. Annuncia che andrà in farmacia a comprare quattro scatole di Fluimucil perché lo vendono solo in Italia e gli è molto utile per la voce, un trucco imparato da amici cantanti lirici italiani. Charles Aznavour dice che esistono solo due tipi di musica: quella bella e quella brutta. Charles Aznavour ci seppellirà tutti. I suoi genitori erano armeni, la famiglia di sua madre era scampata al genocidio. A Parigi, dove lei è nato, furono artisti e ristoratori, ma anche impegnati nella resistenza.

Che infanzia e che gioventù ha avuto?
«A nove anni cantavo già nei locali, ho poi smesso di andare a scuola e da allora non sono rimasto un giorno senza lavorare. Durante la guerra, nella Parigi occupata, i miei nascondevano gli ebrei in casa nostra, per aiutarli. Eravamo poveri ma non abbiamo mai fatto la fame, erano tempi difficili ma le direi una bugia se le dicessi che non mi sono divertito. Ballavamo e cantavamo tutte le sere, lo so che pare brutto dire questo, ma è stata la mia giovinezza ed è stata così».
Quando, molti anni dopo, era diventato la grande attrazione di locali come l’Olympia a Parigi ma anche La Bussola a Viareggio, lei girava in Rolls-Royce.
«Sa com’è, tutti quelli che vengono dalla povertà hanno dei sogni. Io sognavo la Rolls, le barche, le grandi case. Poi sono diventato più ragionevole, adesso barche non ne ho più, anche se ogni tanto mi verrebbe voglia di averne di nuovo una».
Tre matrimoni, tante canzoni d’amore in cui sviscera i sentimenti: ha capito qualcosa delle donne?
«Non ci ho neanche provato! Le ho accettate per quello che sono nella speranza che loro accettassero me con i miei pregi e difetti. Quanto ai tre matrimoni: la prima volta eravamo molto giovani, la seconda troppo scemi e la terza (con la svedese Ulla Thorsell, ndr) è stata quella buona, infatti siamo ancora insieme. Ci siamo sposati 50 anni fa a Las Vegas, testimoni Petula Clark e Sammy Davis jr, il vestito di Ulla lo aveva fatto Ted Lapidus. Poi ci siamo sposati una seconda volta a Parigi, nella chiesa armena».
Cinquant’anni di matrimonio sono un record.
«Il tempo necessario per imparare a capirsi! Ormai Ulla sa che io ogni tanto ho bisogno di stare da solo, per scrivere, comporre, pensare. Allora, lei va a trovare i suoi parenti in Svezia, poi ci si rivede e va tutto benissimo».
Tra i suoi figli qualcuno lavora nella musica? «No, per fortuna nessuno di loro ha avuto velleità di seguire le mie orme. Mi avrebbe fatto soffrire qualcuno che cantasse male e portasse il mio stesso cognome. Hanno quasi tutti dei ristoranti, il mestiere di mio padre che, però, sapeva anche cantare. Era un ottimo baritono».
Che cosa pensa del fenomeno dei dj? Non compongono, non cantano e non suonano: usano materiale altrui e producono pezzi di grande successo. Li considera musicisti o no?
«Uno, non ricordo quale, ha preso un brano mio, le note introduttive di Désormais. Ha pagato e tanto mi basta. Non giudico il loro lavoro, ne so troppo poco. Però le dico una cosa: un qualche talento lo devono pur avere perché senza talento non c’è pubblico. Del resto ai miei tempi, quando noi ragazzi scoprimmo il jazz, i nostri genitori ci dicevamo che quella era musica da selvaggi, bisogna stare attenti a criticare. Io tendo a non farlo, anche perché ho sofferto moltissimo delle critiche altrui. Scrivevano che ero basso, brutto, senza voce. Ci ho messo tre anni a smettere di sudare in scena, per l’ansia».
E come ha fatto?
«Ho imparato a controllarmi».
Mica facile.
«Eh, ma nella vita il controllo è tutto. Se non si impara ad avere il controllo non si sta facendo bene il proprio lavoro».
Si considera un vincente?
«Non posso negarlo. Ho tre lauree honoris causa da tre grandi università, io che ho smesso di studiare da bambino. Ho stretto la mano a non so quanti presidenti e re. In ogni Paese in cui vado, la prima cosa che fanno è portarmi dal Capo di Stato e appuntarmi una medaglia. Ho tante di quelle onorificenze che potrei farne un monumento».
Nel successo, che cosa conta di più: la fortuna o la pazienza?
«La determinazione nell’ignorare quelli che ti possono fare del male. E poi ci vuole la determinazione tout court. Il perfezionismo aiuta. Essere dei rompiballe aiuta. Io lo sono».
Il suo successo corrisponde alle ambizioni di quando era piccolo?
«No, non immaginavo di arrivare a tanto. Mi è andata bene, comunque, me lo dico sempre, perché non sono mai stato quel tipo di idolo dei giovani per cui la gente ti salta addosso e ti strappa i capelli. Ci pensi: la vita dell’idolo dei giovani è un inferno».
Lei dice sempre che il libro più importante è il dizionario dei sinonimi. Esiste un sinonimo di Charles Aznavour?
«Solo Aznavour Charles. Sono unico, siamo tutti unici».
Da molti anni vive in Svizzera e le piace dire Home, Swiss Home. Ha un debole per i giochi i parole?
«Ah, sì, giochi di parole in tutte le lingue, ne faccio almeno uno al giorno. Se non ne faccio, è un brutto segno, significa che non sto bene».
Ma poi se li scrive, li usa magari per canzoni future?
«No, non me li scrivo. Tanto, se sono formidabili me li ricordo, altrimenti vuol dire che non meritano di essere ricordati. Le parole vanno lasciate libere di volare».
In questi giorni, prima di incontrarla, ho riascoltato molte delle sue canzoni più famose. Sono davvero eterne.
«Calma. Di eterno non c’è niente. Forse qualche Piramide in Egitto».