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La metamorfosi di Laura Pausini


La metamorfosi di Laura Pausini
Da ragazza schietta e genuina a diva aggressiva e allergica alle critiche. Ma a 40 anni passati l'autocompiacimento puberale preoccupa.
MASSIMO DEL PAPA

C'è un nuovo focolaio di tensione nel mondo, ed è una faccenda dannatamente seria, che rischia di ridurre Donald Trump a un involuto nerd da tastiera. Si tratta di Laura Pausini, che pare ormai avere completato la metamorfosi da Dottoressa Jeckyll in Mrs Hyde: un giorno si scaglia urbi et orbi contro una non meglio identificata «troia!» live, e la folla al concerto ruggisce; un altro dedica polemicamente la sua candidatura al Latin Grammy – adelante, Pedra! - a chi non crede in lei, che invece, ipse dixit, «ho fatto un disco della madonna», senza dimenticare di ricordare agl'infedeli che di Grammy, latini e no, ne ha già vinti a chili. Ha osato non accorgersene Alberto Angela, che sabato 22 settembre col suo documentario Stanotte a Pompei ha triplicato gli ascolti del concerto della Musa della Solitudine al Circo Massimo, trasmesso su Canale 5, 24,3% di share contro l'8,7%. Chi sa Laura le madonne.

LA TRASFORMAZIONE DI LAURA PAUSINI
Eppur non ci siamo scordati di lei. Così carina, così educata all'inizio della carriera, scoperta da lui, perché lei l'aveva scoperta lui, il solito Pippo Baudo. E per anni era andata avanti a ringraziare, a inchinarsi, quasi a giustificarsi per un riscontro sempre crescente, fino a farsi clamoroso. Alla fine qualcosa si è rotto, e, in verità, ha rotto: Laura Pausini ormai non si discute neanche da sola, lei si trova al di là del bene e del meglio, è convinta di avere fatto un'opera immortale e bisogna dire che i media mainstream ce la mettono tutta per confortarla: ha scritto l'ennesimo capolavoro, già oggi è superiore a Mina, a Ella Fitzgerald, per timbro, intensità, densità, spessore. Va bene così? Possiamo dormire tranquilli così?


QUANDO BERNARDINI ANDÒ A CANOSSA
Perché a scrivere viceversa che il cigno di ****za fa dischi imbarazzanti, accalappiaragazzine alla bella età di 44 anni, c'è da passare un guaio, arriva lei, ti invita a vergognarti, forse faranno una legge per mandarti i gendarmi a casa. Intanto non si permetterà più Massimo Bernardini, il conduttore televisivo, che qualche tempo fa per avere azzardato la parvenza di una lievissima perplessità avvolta nella seta di un crescendo agiografico - «È tempo di maturità, di dischi importanti, senza ammiccamenti» - era stato duramente rimesso al suo posto dalla Musa romagnola: «Nel mio repertorio ci sono anche (sic!) canzoni di grande classe... Sei stato leggero a scrivere queste parole pubblicamente. Ascolta il disco». E non sei più mio amico, poteva concludere. Alla fine lo sciagurato, travolto dalla Furia ****tina, rispose: «Riascolterò il disco, che dal primo giorno ho sul mio Iphone, lasciami sognarti ancora più grande». A prescindere dai livelli di amicizia, che son sempre un guaio necessario in questo mestiere, Bernardini andò a Canossa e fece male, perché criticare è lecito; se fai il critico, è un dovere professionale; se parli della Pausini, diventa un dovere etico, un dovere di verità.

QUESTIONE DI QUALITÀ O DI QUANTITÀ?
Già aveva destato scalpore, quasi sgomento, l'affronto di un altro critico, l'onusto Mario Luzzatto Fegiz del Corriere che aveva osato non gradire Fatti Sentire, l'ennesima acqua fresca pausiniana. Ma facciamo a capirci; se è tutta una questione di dischi venduti, di biglietti staccati, se, engelsianamente, la quantità oltre un certo limite diventa qualità, allora ha ragione lei e bocche cucite. Se invece la qualità è fatta, anche, soprattutto, di altre cose, altri canoni, di costruzioni melodiche e armoniche, concettuali, di raffronti, di significati, allora chi deve star zitta è la Pausini. Che, si capisce, ha tutte le ragioni di difendere il suo operato: ma non può avere l'ultima parola, non può decidere lei quanto e quando uno possa sindacare le sue fatiche compositive. Assodato che non è Billie Holiday o Maria Callas, resta da capire se eventualmente si ritenga Kim Jong-Un. O Giggino Di Maio quando dice «Lo Stato siamo noi».


TREDICI DISCHI E MAI UNO SCOSSONE NÉ UNA GIOIA
Allora vediamo di fare il punto: se, col piumino da cipria Bernardini, in modo più sbrigativo Fegiz, avevano colto nel disco della Pausini quell'autocompiacimento puberale che a 40 suonati preoccupa un po', forse era il segno che l'autocompiacimento c'era. Non che Pausini sia immatura, intendiamoci: è una che i suoi anni se li merita tutti, una che mette i giornalisti su un charter così non fiatano e può farlo perché nessuno si domanda se sia giusto in termini deontologici, essendo la questione risolta dal fatto che Madonna Nostra vende dagli Appennini alle Ande. Il sospetto, è ch'ella consideri pueri quelli che l'ascoltano e faccia di tutto per mantenerli, e mantenerseli, tali. E questa è la spiegazione più benevola. Se invece è davvero convinta delle sue creazioni, Padre perdonala perché non sa cosa incide. Perché dai suoi «dischi della madonna» si sente, si respira, si palpa invariabile la tensione del nulla, quelle cascatine smielate di piano, quel cantato enfatico che può piacere e non piacere ma che in definitiva risulta oltre il melenso, specie dopo un quarto di secolo inchiodato a vocalizzi coreografici. I testi, per misericordia, lasciamoli perdere: «Prenditi un ombrello che sia riparo sotto la tempesta se quello che ti devo è avere il cuore dalla parte giusta». Il punto è che tra un disco di Pausini 2018 e uno del 2011 o del 1994 le differenze sono inapprezzabili e questo può essere inteso come un limite tragico oppure come un incanto bergsoniano, dunque un prodigio nel suo genere. Tredici dischi e nessuno scossone, mai una gioia ma neanche un trauma. E fa scandalo un critico che tira via il velo, che critica un disco inconsistente e dice che è inconsistente? Sì, perché il segno dei tempi sta nel giornalismo sponsorizzante che non critica, non recensisce e ha abituato gli artisti a non accettare niente di meno che la beatificazione complice. Nostra culpa, nostra maxima culpa.

LA SERENA WILLIAMS DEL POP
Ha così rimproverato la Pausini l'incauto interlocutore: «Sei stato leggero a scrivere queste cose pubblicamente visto che ci conosciamo e sai che i social portano polemiche». Come dire: io già faccio una fatica boia a reggere con le unghie e con i denti i gusti che cambiano, l'offensiva dei rapper senza capo né coda e tu non devi crearmi altri problemi, non devi farmi salire lo spread. Per dirla con Gordon Gekko: è tutta una questione di soldi, il resto è conversazione. «Io scrivo pezzi di gran classe». «Lasciami sognarti ancora più grande». Non pare proprio di sentire gli epocali scazzi tra Lester Bangs e Lou Reed. Naturalmente i fanatici con l'immaginetta di santa Laura addolorata, al minimo sopracciglio inarcato, insorgono: «Le ha dato della vecchia, come ha osato». Vecchia? Certamente, in senso artistico, vecchia come una che nell'età della ragione non si schioda dai languori per Marco se n'è andato non ritorna più. Pausini, che lo sa benissimo, fa come Serena Williams, come chi è a corto di controbiezioni: «Che vergogna leggere una frase del genere da un uomo», e la sta solo buttando in rissa cercando lo sdegno dei supporter. Perché oggi il livello della polemica personale è questo, è il vip di turno a eccitare le truppe cammellate sui social per travolgere l'incauto. Ma diciamo pure che tutto va bene, madama la Pausini. Diciamo solo che Ennio Flaiano era bravo nel ribaltare i luoghi comuni con effetti spietati, «l'insuccesso gli ha dato alla testa», ma qui siamo al caso di scuola di un successo che in testa picchia come un martello e forse è il momento che la nostra Madonna del Grammy si dia una pausina, in tutti i sensi: Laura non c'è, è andata via, qui è rimasta solo una Supertrump.