MUSICA




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MUSICA
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Jovanotti: «Sarò sempre un ragazzo selvaggio»



Gli incontri con i brigatisti: «Ero solo un bambino e conobbi un terrorista che partecipò al rapimento di Aldo Moro», i würstel mangiati all’alba, i lavoretti «da barista e da sverniciatore» per guadagnare i primi soldi. A 51 anni, Jovanotti esce con un nuovo disco (Oh, vita!) e si racconta dopo due anni di silenzio su Vanity
Jova e gli esilii consapevoli: «Non appena finito di scattare, Nan Goldin ha appoggiato la Leica e osservando il tramonto oltre la finestra mi ha detto: “Sai che ogni sera mi fermo a guardare il sole perché per quindici anni non sono mai uscita di casa?”». Jova e le fughe cercate: «In Vaticano, dove lavorò per mezzo secolo, mio padre aveva un collega, un suo superiore, Luciano Casimirri. Nei fine settimana, con una moglie dal nome indimenticabile, Ermanzia, ci invitava nella casa di campagna di Monterotondo, io avevo 8 o 10 anni e loro ci raccontavano con ammirazione del figlio Alessio.

Era molto più adulto di me e, a detta dei suoi, era un sub provetto. Io me l’immaginavo subito come una specie di Jacques Cousteau e fantasticavo su questo lupo di mare con il fucile in mano e il cappellino rosso calato sulla testa. Una di quelle domeniche Alessio si manifestò e mi portò nella sua stanza per mostrarmi pesci bellissimi di ogni dimensione, tutti catturati e catalogati da lui, tra cui spiccava la foto di una micidiale murena. Venni a sapere, anni dopo, che era entrato a far parte delle Brigate Rosse partecipando al rapimento di Aldo Moro e al massacro della sua scorta in via Fani, per poi scappare in Nicaragua. Non ci possiamo fare mai un’idea definita su niente e nessuno. Ci si immerge e non si sa mai cosa si può incontrare, le murene per esempio, attraenti e pericolosissime».

Esistono latitudini per ogni latitanza e istantanee per ogni stagione della vita. Per scoprire che la sua non sarebbe stata regolare, Lorenzo Cherubini ha impiegato il suo tempo e messo in fila le proprie Polaroid. Quelle da ragazzo, all’epoca in cui non conosceva sbadiglio: «Tornavo alle cinque di mattina e facevo esperimenti alimentari che se mi azzardassi a replicare adesso, morirei. Scaricavo un paio di scatole di mais in una zuppiera, ci mischiavo pezzi di würstel, ketchup e maionese e poi, guardando l’alba da via Porta Cavalleggeri 107, tra le luci del benzinaio per strada e quelle di San Pietro, mangiavo di corsa prima di infilarmi nel letto». E quelle di oggi, messi alle spalle 51 anni di cui intravedi qualche segno sotto un cappello che non si toglie mai. Tre settimane ancora e Oh, vita!, prodotto da una leggenda come Rick Rubin, il quattordicesimo album a quasi tre decenni dal primo, Jovanotti for President, entrerà nelle case, dalle radio e dalle tv, esattamente come il potente segnale della Radio Vaticana, quando era solo un bambino «un po’ rotondo» che abitava a due passi dal Papa, lo inseguiva che suonasse il citofono, parlasse al telefono o persino – giura – aprisse il frigo. Accanto a lui, siede Francesca. Si sono sposati nel 2008, stanno insieme da sempre. Hanno finito col somigliarsi, anche per fisiognomica. Lui faceva il dj a Radio Foxes, Cortona, Toscana di frontiera, un po’ Etruria e un po’ Umbria. Le diede un biglietto per invitarla a ballare. Lei lo conserva ancora: «Ci segnai a penna la data anche se alla festa», sorride, «non mi mandarono».

Quando iniziò la festa vera?
«Il mio ingresso nella vita sociale risale all’estate del 1982. Quella del Mondiale vinto dall’Italia. L’estate più importante di sempre, quella in cui scoprii la musica. Iniziai a mettere dischi in radio e poi in una discoteca di Cortona. La mia prima paga da dj, 5.000 lire, me la ricordo ancora».

Perché fu l’estate più importante di sempre?
«Perché coincise con l’esatto momento in cui capii cosa volessi fare nella vita. Senza neanche l’ombra di un dubbio. Fu un istante di illuminazione totale, quasi mistica».

Il primo mentore?
«Mio fratello Umberto – lo ringrazierò per sempre – aveva un amico che faceva un programma di dediche a Radio Foxes. Mi portò con lui, entrai in questo studiolo, con le scatole di uova alle pareti per insonorizzare la stanza in maniera rudimentale e pensai: “*****, ma questo è il posto più bello del mondo”. Avevo paura di essere arrivato sul ciglio del paradiso e di esserne subito cacciato. Chiesi timido: “Posso tornare?».

La fecero tornare.
«“Certo che puoi”, disse l’amico di mio fratello, “e già che torni”, aggiunse, “ti insegno delle cose”».

Fu di parola?
«“Siccome è estate e se ne vanno tutti”, continuò, “ti spiego come fare i nastri per la notte”. Poco tempo dopo mi ritrovai in onda. Dalle 14 alle 16, a titolo gratuito. All’epoca la radio era un passatempo e non c’era uno di noi che venisse pagato». La versione di Francesca: «Noi ragazze lo ascoltavamo tutte, era un appuntamento fisso».

Parla l’amore?
«Francesca non mente. La trasmissione ebbe successo e io quel successo lo avvertii subito. A pelle. La radio, il mezzo, era potentissima».

Che musica ascoltava allora?
«Prima di venire qui, in macchina, per esempio, risentivamo Cara di Lucio Dalla». La intona: «Cosa ho davanti, non riesco più a guardare, dimmi cosa ti piace, non riesco a capire dove vorresti andare».

Potrebbe inciderla.
«È una canzone pazzesca, un capolavoro di scrittura, ma al tempo stesso è una canzone che non avendo un ritornello, oggi sarebbe quasi impossibile immaginare. Gli anni in cui ho fatto il dj sono stati musicalmente molto felici, vari e liberi».

Li ha affrontati senza pregiudizi?
«Io ascoltavo Rino Gaetano, Edoardo Bennato o Lucio Dalla senza mai presumere che avessero più autorevolezza di Alberto Camerini o dei Righeira».

E il problema economico? Come lo superava?
«L’altro giorno pensavo che in fondo, un vero e proprio stipendio io non l’ho mai avuto. Da dj sono stato pagato a concerto o a serata e oggi a pensarci bene è ancora così. I soldi, lavorando, si trovavano».

Che lavori ha fatto?
«Il cameriere alle sagre, e lì si prendevan le mance che era un piacere e il barista nel bar di mio zio. Poi lo sverniciatore». (…)