MUSICA




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Prigioniero Caparezza: "In un momento in cui non riuscivo a riconoscermi è nato il disco"


di LUIGI BOLOGNINI

Michele Salvemini pubblica un nuovo album, 'Prisoner 709', registrato tra Molfetta, ovvero casa sua, e Los Angeles. Complice di titolo e concept l'acufene, ronzio perenne all'orecchio, che lo ha fatto riflettere sull'oggi: "Divertendosi è il modo migliore per convogliare concetti pesanti". Il tour parte da Ancona il 17 novembre


Per fare certe cose ci vuole orecchio. Sempre che l’orecchio lo permetta. Questa è la storia di un cantante alle prese con l’acufene, il ronzio alle orecchie, che lo molesta così tanto da farci un disco. A questo punto qualcuno penserà a uno dei soliti che per precisa scelta artistica, o forse per incapacità di fare altro, scrivono e cantano solo di se stessi e di quel che gli succede. L’ego è il loro signore e padrone. Invece, sorpresa, è Caparezza, uno degli artisti più sensibili e con meno ego in circolazione (o meglio, l’ego è parecchio, ma non è narcisismo, non ne è schiavizzato). E in Prisoner 709 (il numero si legge all’inglese, 'seven o nine') il molesto fischio diventa comunque lo spunto per riflettere su tante cose: la religione, la scrittura, la musica, il modo di pensare di oggi. E sempre con lo stile Caparezza, un rap rock dai suoni duri, una vertigine di giochi di parole, battute, riflessioni serie se non drammatiche fatte col sorriso.
Video

Caparezza, però, partiamo dall’acufene.
"Mi è successo a giugno 2015. Il fischio nelle orecchie lo avevo da anni, ma era sopportabile. D’improvviso è diventato una tortura, probabilmente a causa dell’abuso dei volumi. Il problema è che non ha cure vere, tanti dicono di poterla battere, ma non ci riesce nessuno. Ho provato di tutto, pillole, iniezioni, psicoterapia, e alla fin fine ho capito che dovrò tenermelo e, semplicemente, pensare ad altro, distrarmi. Ma intanto mi ero chiesto, un classico, perché proprio a me che avevo concentrato l’esistenza sulla musica. In realtà capita a tanti. Ma questo mi ha portato a riflettere e a scrivere, a domandarmi se sono un artista libero o prigioniero del ruolo, perché ho fatto musica e non altro, se era destino fare dischi o se era solo un equivoco. Ed ecco Prisoner 709".




E come si porta l’acufene in musica?
"Si fa autoanalisi. Il disco parte da Prosopagnosia, che è l’incapacità per problemi neuronali di riconoscere i volti. Io invece non riuscivo più a riconoscere me stesso. In mezzo, brani che sono capitoli del carcere mentale dove l’acufene mi ha rinchiuso: la pena (Prisoner 709), lo psicologo della prigione (Forever Jung), la religione (Confusianesimo), il colloquio (Una chiave) e così via. E finisce con Prosopagno sia, insomma l’accettazione del disagio fino a conviverci".

I suoi soliti giochi di parole. Il disco ne è pieno. Piccolo campionario: 'Ho visto più Medici in un anno che Firenze nel Rinascimento', 'Nei palazzetti pazzeschi sarò Palazzeschi', 'Fischia l’orecchio, infuria l’acufene. Nella testa vuvuzela, mica l’ukulele'.
"Bisogna divertirsi, anzi è il modo migliore per dire concetti anche pesanti, la musica leggera deve essere leggera anche in questo senso e poi può essere pesantissima per altre. C’è una frase in Migliora la memoria con un click: “Accettare il dolore per apprezzare la vita è come ingoiare un tizzone per apprezzare la pizza”. Molti dicono che solo capendo il dolore si può poi godere del piacere. Io la trovo una pessima visione, molto cattolica, e lo dico col rispetto dell’agnostico verso le religioni. Il dolore è dolore e va se possibile evitato. Poi va accettato, ma non per apprezzare la vita, semplicemente perché non puoi eliminarlo e te lo tieni".

Discorsi filosofici come spesso capita di fare con lei. E come spesso capita questo è un disco che ha bisogno di ripetuti ascolti, magari con le parole sottomano, per cogliere tutte le sfumature. Insomma un disco difficile, per usare un aggettivo temutissimo in tempi in cui tutto deve essere semplice. Ecco, proprio per i tempi che corrono questo fare dischi difficili non lo ritiene un problema per un cantante che dovrebbe raggiungere più pubblico possibile?
"Guardi, il mio punto di vista è diverso. Io ho un solo punto di riferimento quando compongo e sono me stesso. Devo fare canzoni e dischi che piacciano a me, che io abbia voglia di ascoltare. Il resto nasce tutto da lì, e dalla fortuna che ho che le cose che piacciono a me piacciono anche a tanta gente che compra i dischi e viene ai concerti. E così quando riascolto i miei dischi vecchi io ritrovo me stesso. Il che non vuol dire che mi piacciano ancora, perché ritrovo il me stesso di allora, e io non sono più il me stesso di 20 anni fa, almeno in parte sono cambiato".



Rinnega qualcosa di se stesso?
"Il periodo di vent’anni fa, in cui mi chiamavo o mi chiamavano Mikimix e componevo brani melodici e minimalisti, partecipazione a Sanremo Giovani inclusa. Dal disgusto per quello nacque Caparezza, e per fortuna è tutta un’altra storia".

Però un omaggio al suo passato c’è, non a quello di Mikimix, ma a quello di un adolescente che incontra il rap: la partecipazione di Darryl McDaniels dei Run Dmc.
"Questa gioia me la sono voluta togliere. Il rap, avendo la possibilità di raccontare se stessi in un flusso incontrollato e incontrollabile, richiama un po’ il flusso di memoria, e quindi Freud e Jung. Così in Forever Jung ho voluto l’uomo che fece irrompere il rap nella mia vita coi Run Dmc".

E a questo punto?
"A questo punto mi tengo l’acufene, tanto non ne guarirò mai, e non si illuda chi l’ha. Ho capito che non mi impedisce di fare musica, anzi, e tanto mi basta".