MUSICA




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Enzo Jannacci: la storia di "Vengo anch'io. No tu no"


06/06/2016 di Renzo Stefanel

Nel 1967 Enzo Jannacci non se la passa male. È nel giro da una dozzina d’anni in cui è successo di tutto: gli inizi come pianista nei cabaret milanesi, l’amore contemporaneo per il jazz e per il rock’n’roll, i lavori con i musicisti più disparati, tra cui un nome importante del be bop come Bud Powell, urlatori come Tony Dallara, crooner come Bruno Martino, i primi rocker Giorgio Gaber, Adriano Celentano e Luigi Tenco (prima della conversione jazz). Suona nei Rocky Mountains, poi nei Rock Boys, partecipa al Primo Festival del Rock'n'Roll (18 maggio 1957, al Palazzo del Ghiaccio di Milano, in via Piranesi) come chitarrista di Celentano, quindi fonda con Gaber I due corsari, con cui incide una manciata di 45 giri. Quindi, dal 1960, la carriera solista, con la svolta decisa verso un jazz facile, un be bop popolare, che si possa ballare, come si ascolta nei club e nelle balere milanesi. Tre album, “La Milano di Enzo Jannacci” (1964), “Enzo Jannacci in teatro” (1965), “Sei minuti all'alba” (1966), tutti per la Jolly Records, che testimoniano l'ingresso, via Gaber, nella Milano degli intellettuali engagé (Giorgio Strehler, Dario Fo, Franco Fortini, Marcello Marchesi, Walter Valdi, Luciano Bianciardi) e che gli valgono grandi consensi di critica, ma pochi di pubblico, complice anche la Rai, unica radio e tv dell'epoca, che lo passa solo “raramente, sempre sul secondo canale, sempre dopo le dieci di sera e sempre quando sul primo canale c'era la partita Brasile-Ungheria (squadra fortissima e dal calcio spettacolare tra anni '50 e primi anni '60, ndR). «Tu abbassi l'indice di gradimento», mi dicevano” (Enzo Jannacci, intervista a “L'Europeo”, 1968, n. 18).
A Milano, però, grazie al Fo che l'ha preso sotto la sua ala protettrice quando stava per mollare tutto (“Volevo proprio cambiare mestiere: nessuno voleva saperne delle mie canzoni strambe. Anche quando sono comparso per la prima volta in tv, non sono mancate le proteste”, in “Stampa Sera”, 9 ottobre 1964) per dedicarsi solo alla medicina, diventa una piccola celebrità, grazie allo spettacolo “22 canzoni”, con la regia di Dario Fo: “I milanesi impazziscono per le canzoni di Jannacci” titola la solita “Stampa sera”. E ribadisce in didascalia alla foto del cantautore: “Jannacci è divenuto l'idolo della Milano-bene”, dato che, se “prima nessuno voleva saperne dell'autore di «El portava i scarp del tennis», poi la fortuna ha girato” e “ora fa furore cantando storie grottesche e patetiche”.


Così, nel 1967, Jannacci non se la passa male. Sempre “Stampa sera”, stavolta del 17 novembre 1967, informa, come si fa coi vip, che “entro questo mese Enzo Jannacci si sposa. L'appartamento è già pronto, tanto grande che lui lo chiama «il labirinto». In affitto, s'intende, perché Jannacci di soldi non ne ha fatti a bizzeffe come certi cantanti, e di appartamenti ne ha già uno, piccolissimo, a Roma, che gli serve quando va a incidere dischi”. Ormai è di base fisso al Derby, in cui ha messo su il Gruppo Motore, con Bruno Lauzi, Felice Andreasi, Lino Toffolo, Cochi e Renato. E annuncia per l'anno prossimo “una minioperina, nata per un palcoscenico grande, ma ridotta con tagli secchi alla durata di un'ora per poterla dare in un cabaret” dal titolo “difficilissimo a dire: Piri - Pirippi – Piri [...] storia amara e grottesca del non inserimento di cinque sbandati”. “Piri - Pirippi – Piri” è il refrain ossessivo di “Giovanni telegrafista”, traduzione quasi letterale di “Joao o telegrafista” del poeta carioca Cassiano Ricardo, eseguita da Ruggero Jacobbi, ordinario di Letteratura brasiliana all'Università di Roma, messa in musica da Jannacci stesso, che evidentemente è già scritta. E che non darà a Jannacci l'agognato successo.
Gli verrà, invece, come spesso accade, dal classico pezzo accantonato, che, dovendo ultimare il nuovo album, stavolta per la ARC, etichetta satellite della potente RCA italiana, voluta dal direttore generale in persona, Ennio Melis, per fare centro con nuovi artisti, Jannacci tirò fuori dal proverbiale cassetto: si tratta, ovviamente, di “Vengo anch'io. No tu no”.


Il primo abbozzo della canzone era nato nel 1965: “Lavoravo in un cabaret torinese che poi è fallito. Mi davano un po' di paga e il mangiare. Una sera ho suonato il motivo a Pupo De Luca, il musicista (batterista del jazzista Enrico Intra al Derby Club e primo a mischiare cabaret e musica raccontando storielle surreali tra un brano e l'altro, ndR). Suonando l'ho allargato, mi sono scaldato, ed è venuto fuori questo «Vengo anch'io. No, tu no», che via via ha preso un tono isterico. La frase c'era già; e anche la musica”. (Enzo Jannacci a “L'Europeo”, 1968, n. 18). Nessuno mi sembra lo abbia mai notato, ma è evidente la filiazione del maggior successo di Jannacci dalla sua “El portava i scarp del tennis” (marzo 1964), che nel parlato centrale sfodera questo dialogo tra un milanese benestante, che chiede la strada per l'Idroscalo, e un barbone:
“Sì, l'Idroscalo al so in dua l'e', al meni mi all'Idroscalo, vengo su anch'io sulla macchina, è forte questa, è forte la macchina".
“Lasa sta la machina barbon".
“No, signore, vengo anch'io sulla macchina, non sono mai stato su una macchina io”.
Comunque sia, a fine 1967 Jannacci si ricorda del pezzo: “Ho fatto sentire il tutto a Fo, gli ho detto: «Guarda Dario, qui bisogna trovare una storia da metterci intorno». Ci siamo seduti e abbiamo buttato giù la prima strofa” (“L'Europeo”, cit.). Che è questa qui:
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale.
Vengo anch'io. No, tu no.
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare aiuto, aiuto è scappato il leone,
e vedere di nascosto l'effetto che fa.


Fo, nella stessa intervista a “L'Europeo”, condotta da Lietta Tornabuoni, aggiunge: “È venuta fuori come tante altre canzoni che abbiamo scritto insieme. Una canzone noi la facciamo in un quarto d'ora: durante la preparazione del recital milanese di Jannacci, di cui ho curato la regia, ne abbiamo scritte cinque. Questa volta mi ha fatto sentire il motivo e la frase “Vengo anch'io!”. Io ho inventato la risposta. “No, tu no. Ma perché? Perché no”, e ho trovato la chiave dei «tutti quanti» che vogliono escludere uno. Insomma ci ho messo il negativo, il rifiuto”. E qui è evidente che qualcosa non torna, dato che Jannacci poche righe (e pochi minuti di intervista) prima ha affermato di aver inventato lui il “No, tu no”. Contraddizione che si risolve facilmente pensando a una svista della Tornabuoni o a un lapsus di Fo, che potrebbe aver verosimilmente inventato invece il semplice “ma perché? Perché no!” che chiude così il ritornello:
Vengo anch'io. No, tu no.
Vengo anch'io. No, tu no.
Vengo anch'io. No, tu no.
Ma perché? Perché no!
Continua Jannacci: “Poi sono andato a Roma, ho visto Fiorenzo Fiorentini (attore, compositore e sceneggiatore romano, noto per i suoi personaggi-limite della Roma popolaresca, ndR) e lui ha fatto le altre due strofe” (“L'Europeo”, cit.). Ovvero queste:
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera.
Vengo anch'io. No, tu no.
Con la bella sottobraccio a parlare d'amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto che fa.
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore.
Vengo anch'io. No, tu no.
Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto che fa.
Quindi la conclusione: “L'ultima l'ho inventata io con Cochi e Renato” (“L'europeo”, cit.), che infatti compaiono nei crediti della prima edizione del 45 giri sotto la sigla Core, poi scomparsa in tutte le ristampe (e mai presente nella registrazione del brano alla Siae, accreditato ai soli Jannacci, Fo e Fiorentini). Eccola qua:
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale.
Vengo anch'io. No, tu no.
Per vedere se la gente poi piange davvero
e scoprire che per tutti è una cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto che fa.


Una bella storia, vero? Peccato che sia vera solo in parte. O meglio che sia un misto di realtà e invenzione. A parte la strana uscita dai crediti di Cochi e Renato (ovvero gli attori comici Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto), che pure conservano amicizia e collaborazione con Jannacci, c'è il fatto che le strofe scritte da Fo e Jannacci erano ben più di una: erano tre. Le altre due, note da tempo agli appassionati di Jannacci, erano molto più politiche. Eccole qua:
Si potrebbe andare tutti insieme nei mercenari
vengo anch'io? No tu no
giù nel Congo da Mobutu a farci arruolare
poi sparare contro i negri col mitragliatore
ogni testa danno un soldo per la civiltà.
Si potrebbe andare tutti in Belgio nelle miniere
Vengo anch'io? No tu no
a provare che succede se scoppia il grisù
venir fuori bei cadaveri con gli ascensori
fatti su nella bandiera del tricolor.
La prima si riferisce alla convulsa situazione che si verificò nel Congo all'indomani dell'indipendenza dal Belgio, nel 1960: in estrema sintesi, uno scontro tra filoccidentali e filosovietici da cui emerse nel 1965 la dittatura di Mobutu Sese Seko, guida di una regime estremamente cruento e rapinoso nei confronti del popolo congolese. La seconda allude invece al disastro minerario di Marcinelle, in Belgio, in cui morirono 262 minatori, in gran parte emigrati italiani, nel 1956.
Insomma, in questa versione, quello di “Vengo anch'io. No, tu no” è il tipico testo della tipica canzone di Dario Fo, in cui, per dirla con le parole di Gianfranco Manfredi, il “personaggio dell'Escluso, dell'Estraneo, dello Schizo, era quasi sempre intriso di Storia Proletaria […]. Il discorso inclina verso l'ideologia, per di più in versione macabra, e quello che grida “Vengo anch'io" è un cretino cronico che vuole arruolarsi coi mercenari o morire in miniera. Per di più l'inserimento del fatto politico, della Storia e della Cronaca rende già in partenza vecchissima la canzone, ineseguibile fuori dal momento, misero francobollo su tragedie storiche che non hanno bisogno di essere "impostate. [...] Tra l'altro a non accettarlo tra i mercenari o in miniera gli fanno un favore." (“Quelli che cantano dentro nei dischi, 2004).


Invece, chi dice per censura della RCA, chi per colpo di genio di Jannacci, le due strofe “politiche” vengono espunte, rendendo il personaggio universale, facendo in modo, in altre parole, che chiunque, quali che fossero le sue idee politiche, potesse identificarcisi. Chi non si è mai sentito escluso da qualcosa, in vita sua? “Il personaggio di cui canta Enzo è invece un personaggio collettivo, ci riguarda tutti; è uno che vorrebbe inserirsi, comportarsi come gli altri, essere tra gli "amici miei", partecipare a qualsiasi goliardata, esserci tanto per esserci. Ed è respinto. Senza motivo. Solo per il fatto che ogni compagnia presuppone e impone un escluso. Ogni divertimento presuppone uno di cui si ride, ma che non deve ridere. Neppure nel mondo dell'odio reciproco (luogo reale delle "compagnie") c'è posto per lui. Neppure al suo funerale” (Gianfranco Manfredi, op. cit.).
Anche nella strofa del funerale ci fu una modifica importante: in origine, invece di dire “e scoprire che per tutti è una cosa normale”, il penultimo verso recitava “e scoprire che poi piangono solo le suore”, come informa il precisissimo Franco Zanetti in “Avant Pop '68” (con Riccardo Bertoncelli, 2008), il che ovviamente ne sottolinea “ancor di più la solitudine di […] antieroe moderno” (ibidem) e sembra confermare una precisa volontà artistica.
La canzone, come tutto il nuovo album, fu prodotta da Nanni Ricordi, enfant prodige e engagé della discografia italiana. Il nastro fu spedito a Roma perché Italo “Lilli” Greco lo mixasse: “Melis mi chiese di missarlo. Il nastro ci arrivò a Roma nudo e crudo, tanto che all'inizio della registrazione si sentiva Enzo improvvisare al pianoforte una svisata jazz niente male. [Gli] portai fortuna” (Lilli Greco in Maurizio Becker, “C'era una volta la RCA”, 2007). Mimma Gaspari, responsabile dell'ufficio stampa della RCA, consiglia il disco a Renzo Arbore, che conduce alla radio “Per voi giovani”. Ricorda il presentatore: “Mi fu raccomandata dai vertici della RCA. Ma loro stessi, può sembrare strano, non ci credevano. Io sentii quel pezzo e pensai che quella era una canzone straordinaria”. Così inizia a passarla. E stavolta Jannacci fa boom.
“Il 45 giri, che s'affaccia in Top Ten il 30 marzo, all'ottavo posto, sale con regolarità fino a raggiungere la piazza d'onore l'11 maggio; è secondo anche la settimana seguente, poi scende poco per volta e la sua ultima presenza (di dodici complessive) è datata 15 giugno 1968. Nella classifica dei 100 più venduti dell'anno, “Vengo anch'io. No, tu no” conquista la ventesima posizione: un risultato clamoroso” (Riccardo Bertoncelli e Franco Zanetti, op. cit.).
Dice Jannacci: “Alla gente è piaciuto il «Vengo anch'io», perché è un luogo comune, una frase corrente. Però nella canzone è detta in un certo modo; in più da uno che fa la faccia da deficiente e strilla come un cane sgozzato. Quindi diverte” (“L'Europeo”, cit.)

(Enzo Jannacci e Tognazzi a San Siro per Milan-Lazio, 1972. Foto via)
Tutti si riconoscono nell'escluso, anche se ovviamente a diversi livelli e in modi differenti. C'è chi pensa che si tratti di un'allegra canzoncina per bambini, nonostante la tragicità assurda di quel funerale alla fine (ma allora, nei rudi anni '60 italiani, non ci si faceva tanti problemi coi pupi), tanto è vero che ancora oggi viene ristampata in collane di canzoncine per l'infanzia. Chi invece, come Manfredi, in quei primi del '68 che metterà a soqquadro il mondo, la prende come il canto della “Grande Sfiga di una generazione che supponeva fosse arrivata l'Era della Matte Risate. Proprio all'alba del trionfalismo rivoluzionario, Jannacci si presenta con la faccia dell'Emarginato a vita, che è poi la faccia più autentica del' 68 […]. Tutti noi giunti all'Università sicuri di vedere gente in toga come nei college americani e invece vedevamo gente in coda, smarrita, già precaria, e ci trovavamo “per natura” estranei all'accademia, al suo linguaggio, alla sua etica baronale, all'autorità (e non solo all'autoritarismo) di una cultura fata di cattedre e di esami […]. Quando, in pieno '68, “Vengo anch'io. No, tu no” scalò le vette di Hit-Parade […] ci sentimmo vittoriosi” (op. cit.).
Certo, vista anche la coincidenza temporale, “Vengo anch'io. No, tu no” è la colonna sonora delle contestazioni del '68 in Italia. Ma gli iscritti all'università per l'anno accademico 1967/1968 fossero 500.000 su 53.240.000 italiani. In percentuale, appena lo 0,94 %. Arrotondando in eccesso. È quindi ovvio che è la prima interpretazione, quella spensierata e fanciullesca, che passa. Diventa un vero fenomeno di costume. Diventa sigla della varietà televisivo omonimo della Rai, che inizia il 20 luglio e prolunga così il tormentone per tutta l'estate. Perfino Lina Wertmüller vorrebbe trarne un film, che poi, però, non si farà.
All'inizio Jannacci è entusiasta: “Non mi imbrogliano più con la storia che il mio indice di gradimento è meno venti. Se vendo 240 mila dischi di “Vengo anch'io!” vuol dire che ho ragione io” (“L'Europeo”, cit.). Poi, a fine anno, partecipa a “Canzonissima”, gara televisiva dove si concorre con una canzone nuova e successi del passato. Passa il primo turno proprio con “Vengo anch'io. No, tu no”, il 5 ottobre, ma poi si incaponisce a presentare “Gli zingari”, canzone tristissima e un po' melensa, volendo battere il melodico Claudio Villa sul suo stesso terreno, ma con contenuti impegnati, il 23 novembre. Il pubblico, prevedibilmente, lo boccia. Lui si sente costretto nel personaggio dello stralunato, sente di non essere compreso: “Quando ho capito che mi prendevano per una macchietta, che volevano il personaggio, il burattino di “Vengo anch'io. No, tu no”, ho lasciato perdere. Quando spari in faccia al pubblico un certo casino, non ci sta più, vuole divertirsi, dice. Non ci sono invece i personaggi, ci sono i disgraziati. […] Bisogna spiegare alla gente che i personaggi sono una massa di disgraziati, una massa di illusioni” (Enzo Jannacci in Claudio Bernieri, “Non sparate al cantautore”, 1978-2011).