MUSICA




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MUSICA
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Da Bowie a Michael, chi ci ha salutato nel 2016 non morirà mai


Ecco cosa ci toglie la morte di un regista, di uno scrittore, un musicista, un attore, un medico, un testimone civile: il sapere che finché esiste, testimonia e detiene un modo di stare al mondo che ci rappresenta e rassicura. La sua scomparsa diventa allora la fine di una militanza estetica che modifica il mondo


di Diego De Silva

Potrei sbagliarmi considerato lo spaventoso numero di trapassati di quest'anno, ma credo che l'ecatombe del 2016 sia cominciata con David Bowie. Tra le star che ci hanno lasciato nel corso di questi non esattamente memorabili dodici mesi, Bowie è forse il divo la cui scomparsa ha colpito più trasversalmente l'immaginario luttuoso mondiale; quasi che, in morte, il Duca Bianco si sia trovato a beneficiare di un affetto planetario che ne ha capitalizzato il successo riscrivendolo una volta per sempre, ridefinendo l'ampiezza del suo pubblico in termini culturali e dimostrando quanto non solo la sua musica (tutt'altro che leggera), ma soprattutto il suo carisma ambiguo, quell'essere all'avanguardia in ogni espressione di sé, in una parola (anzi, tre) il suo personaggio, fosse destinatario di quella peculiare ammirazione collettiva riservata agli artisti che nascono di rado, e dunque fanno segnare una perdita secca quando muoiono.

Bowie, poi, aveva un'eleganza mutevole che gli avrebbe consentito di prendersi la scena anche vestito da impiegato del catasto; il potere (tipico dei carismatici) di mettere in soggezione il prossimo con la semplice presenza, sì che se ti trovi nella stessa stanza con uno di loro vorresti correre a casa a farti una doccia per sgrassarti di dosso un po' d'insignificanza.


La mia domestica, una signora di mezza età che ha iniziato a lavorare da ragazzina ed è stata sempre troppo presa dal compito di guadagnarsi da vivere per dedicarsi all'ascolto della musica rock e più in generale per divertirsi, il giorno della morte di David Bowie è venuta a riferirmi la notizia con una nota di autentico dispiacere nella voce, lo stesso che dieci anni prima avrebbe usato in occasione della dipartita di Mario Merola.

Anna (si chiama così) ricordava imprecisamente qualche sua canzone (“Space Oddity” su tutte, che conosceva nella versione italiana scritta da Mogol, “Ragazzo solo, ragazza sola”), eppure di Bowie aveva un concetto, vago ma giusto; l’idea (la suggestione) di un artista che interpretava il mondo in una forma originale e difficile, che lei non capiva esattamente eppure approvava, ed era contenta che ci fosse.

Pur conoscendo abbastanza la sua discografia, non pensavo che David Bowie fosse così popolare, che appartenesse a un immaginario tanto ampio. Lo credevo, malgrado il successo, una rockstar d’élite. Mondiale, ma d’élite (buon ossimoro, fra l’altro). Non avevo capito niente.

Ma quello che più mi colpiva in quell’inaspettato lutto simbolico della mia domestica era scoprire quanto Anna fosse dispiaciuta dalla morte in sé del personaggio, dalla banale presa d’atto che Bowie non fosse più in vita (pur non essendo - ripeto - una sua fan).



Ecco cosa ci toglie (e in cosa consiste quella tollerabile tristezza che in questi casi proviamo sempre) la morte di un regista, di uno scrittore, un musicista, un attore, un medico, un testimone civile; addirittura di un politico che abbia condotto delle battaglie civili meritevoli di riconoscenza: il sapere che finché esiste, anche se ha smesso di produrre o addirittura s’è ritirato dalla scena pubblica, testimonia e detiene un modo di stare al mondo che ci rappresenta e rassicura. La sua scomparsa diventa allora la fine di una militanza estetica che modifica il mondo (o almeno lo condiziona, lo tiene un po’ a bada) anche con la sua semplice presenza; e dunque un vantaggio per la volgarità del presente, che contabilizza un avversario di meno.

È con Bowie, quindi (mi pare), che è partito il necrologio 2016. Pensandoci sopra, si potrebbe fare addirittura un calendario 2017 in memoria di dodici personalità di rilievo venute a mancare l’anno prima, mescolando i generi (un po’ come Rolling Stone, che ha dedicato una copertina anche a Papa Francesco). Per non rischiare discriminazioni fra gli spirati, si potrebbe pensare a più di un calendario. In uno potrebbero esserci, oltre a Bowie, che so, Leonard Cohen, Fidel Castro, Paolo Poli, Muhammad Ali, Tina Anselmi, Gene Wilder, Zaha Adid, Abbas Kiarostami, Dario Fo, Umberto Veronesi, Prince e George Michael. In un altro Ettore Scola, Keith Emerson e Greg Lake (degli Emerson, Lake & Palmer), Elie Wiesel, Lemmy Kilmister dei Motörhead, Marco Pannella, Toots Thielmans (grande armonicista noto in Italia per il suo contributo in “Non gioco più” di Mina, sigla finale del varietà “Milleluci”), Ermanno Rea, Silvana Pampanini, Pierre Boulez, Carlo Azeglio Ciampi e Lino Toffolo. E i calendari, purtroppo, potrebbero addirittura continuare, perché mai come quest’anno c’è da portare la mano alla fronte per i tanti che ci hanno lasciato e difficilmente troveranno successori adeguati.

In un tempo così tempestato dalle dipartite celebri era inevitabile che, sul piano mediatico, la grande agenzia funebre fosse rappresentata dai social network. Chi (come me) si sia chiesto a lungo (senza aver capito bene) cosa fosse il tempo reale, ha finalmente colto il concetto nella velocità dell’aggiornamento mortuario accompagnato da messaggi di cordoglio.

Quel che in particolare spicca - a parte la rapidità con cui il lutto virale egemonizza i social, disegnando nuove geografie della sensibilità collettiva, - è la confidenza virtuale che ci si prende d’ufficio con il de cuius, parlandone manco ci si fosse andati all’asilo insieme e mistificando trascorsi immaginari con frasi di stile facilmente equivocabili, tipo: «Mi hai aperto un mondo»; «Quando stamattina ho saputo, non potevo crederci»; «Mi hai lasciato la tua musica, il più grande dei regali che potessi farmi»; «Grazie per avermi insegnato che non basta venire al mondo per essere vivi»; «A chi mi rivolgerò adesso, nei pomeriggi piovosi dell’anima?»; «Ti devo tutto».
In questo tipo di esternazione dolorifica, l’uso generico del tu è sintomatico dell’imbarazzo di fondo del messaggiante nell’alludere a un rapporto personale con lo spirato di successo (si resta, insomma, nell’ambito del millantato credito ritrattabile alla domanda: «Scusa, ma lo conoscevi?!).

Poi ci sono gli ultras del necrologio in rete, che vanno direttamente sul nome di battesimo con disinvoltura patologica. Qui non siamo neanche all’usucapione del tu che si riserva alle leggende e sdogana il libero uso del nome (come accade con Elvis, i Beatles o Dio), macché: gli ultras sono quelli che non si fanno il minimo problema a chiamare “Marta” Marta Marzotto, “Dario” Dario Fo, “Umberto” Umberto Eco o “Gianroberto” Gianroberto Casaleggio. Il che, se ci pensate, è un po’ come farsi il selfie col morto.

Niente di nuovo, alla fine: da sempre, la morte è (anche) un’occasione di protagonismo, di paradossale mondanità; un copione tragico che ammette la libera interpretazione e soprattutto l’eccesso. Chi di noi non ha esperienza di un parente o un vicino di casa che amava occupare la scena in caso di lutto familiare, quasi fosse in concorrenza con il dolore dei legittimi sofferenti, e mal sopportava che altri rivendicassero una pena superiore alla sua? La teatralizzazione della morte, nella forma del primato del dolore, è un modo di uscire dall’ombra dello scomparso per guadagnare finalmente un po’ di visibilità, mostrandosi capaci di sentimenti nobili. È lì che viene fuori lo stile. Ed è lo stile del dolore (cioè l’estetica con cui si sceglie di rappresentarlo), a renderlo vero o falso.
In questo senso, il format comunicativo del social network offre un buon check-up antropologico dell’utente, perché se c’è una cosa in cui i social riescono benissimo è farti venire fuori per quello che sei davvero. E non è che puoi dare la colpa - mettiamo - ai centoquaranta caratteri di Twitter, se la tua cifra distintiva è la pochezza. La parola digitale ha un potere certificativo molto simile a quello dell’intercettazione.

Poi c’è addirittura chi dà del tu ai defunti famosi perché si sente famoso anche lui. In certi messaggi (quelli in cui sembra di leggere fra le righe il cordoglio per la morte di un collega) si coglie chiaramente questo sottofondo psicopatico. È uno dei punti estremi della democratizzazione del successo attuata dalla rete, che ha superato la previsione warholiana del quarto d’ora di celebrità, consentendo a chiunque di realizzare l’illusione di un pubblico.
È abbastanza facile prevedere che questo successo di cittadinanza, spettante a chiunque risieda in rete, condizionerà (se non l’ha già fatto) il potere simbolico del suicidio. Qui il discorso si restringe inevitabilmente alle rockstar, la morte delle quali (e non solo per suicidio) ha sempre esercitato un fascino potentissimo sull’immaginario. L’incomprensibilità del gesto suicida dell’artista di grande successo è stata storicamente amplificata dalla scarsezza d’informazioni al riguardo, dalla causticità dell’evento, dall’inammissibilità del Segue Dibattito.

Oggi, è praticamente impossibile che una rockstar si autoelimini senza che la sua iniziativa scateni una moltitudine d’interpretazioni, letture, commenti, Like, millantate fratellanze, annunci di ulteriori suicidi di chi considera la sua vita priva di senso da quella scomparsa in poi, un mastodontico chiacchiericcio che desacralizza la sua morte privandola d’incomprensibilità, rendendola un evento su cui chiunque può dire la propria; mentre il bello (si fa per dire) del suicidio è che il suicidio è un atto insindacabile, che non ammette apprezzamenti o dibattiti (ci si suicida per questo, in fondo: perché non si vuol più sentire l’opinione di nessuno).

C’è un brevissimo dialogo di un romanzo di Nick Hornby che racconta magistralmente la fascinazione della morte dell’artista, in cui un ragazzino chiede a un adulto che ha da poco iniziato a frequentare sua madre chi siano gli strani tipi che vede raffigurati in due poster, e perché si trovino su una parete di casa sua. Intende Chet Baker e Charlie Parker.
«Sono sulla mia parete perché mi piace la loro musica e perché sono da sballo», risponde il frequentatore di sua madre.
«Perché sono da sballo?», ridomanda il ragazzino.
«Non lo so», risponde lui sospirando, «forse perché si drogavano e sono morti».
Tutto qui.