MUSICA




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Robbie Williams: "Io sono lo show. E ho un difetto, mi piace piacere"

Il titolo è programmatico: The heavy entertainment show. Torna così Robbie Williams a 42 anni: esagerato, grandioso, pop, un perfetto “entertainer” di oggi ma con i piedi ben radicati nel “grande spettacolo” del passato. “Larger than life”, direbbero gli inglesi, e la definizione si attaglia bene alla sua storia di ex Take That passato per mille vicissitudini artistiche e personali. Lo incontriamo a Londra per parlare del nuovo album, che uscirà il 4 novembre, anticipato dal singolo Party like a Russian che cita Prokofiev.


Cos’è l’intrattenimento per Robbie Williams?
«Ogni cosa che cattura la mia attenzione. Sedermi e guardare la ruota che gira, guardare la gente è piacevole, è tutto intrattenimento, nel momento in cui esci dalla tua stanza, o quando guardi YouTube o altro. E per lei?».

La buona musica. È davvero “entertaining” il suo album, perché non entra nelle categorie di oggi.
«Non suona così contemporaneo, ha ragione, ho scritto un’ottantina di canzoni per questo disco, certo volevo che fosse un disco di successo, che fosse commerciale, sentirlo suonare alla radio, poi ho riascoltato le canzoni e ho detto “oh, non suona come nulla che passa oggi alla radio”, è una cosa cattiva o buona? Non sono sicuro. Come ho scelto? Volevo che fosse un’esperienza a suo modo “teatrale”, volevo che i testi fossero interessanti, volevo che le canzoni fossero allo stesso tempo provocanti e piacevoli, non stridenti, o forse giusto un pizzico. Volevo fossero dieci singoli e penso di esserci riuscito, ci sono undici tracce nell’album ma dieci buoni singoli».

Possiamo dire che con questo album lei gioca più deliberatamente nel campo di Frank Sinatra che in quello di Justin Timberlake. Cerca di fare “lo show” alla vecchia maniera.
«Si, tutti i miei eroi hanno questo approccio teatrale, Dean Martin, Sammy Davis Jr., Elvis, il Tim Curry di Sweet transvestite. Se non fosse per lui io non avrei un personaggio, se non fosse stato per il Rocky Horror Show non avrei avuto un palco. Così i miei punti di riferimento sono ovviamente molto più vecchi di quelli di Justin Bieber, sono tutti intrattenitori vecchio stampo. Gene Kelly, Fred Astaire, Frank Sinatra. Un po’ diversi da quelli di Justin Bieber».

Quanto è difficile fare musica che sia in questo stile ma contemporanea? A chi si rivolge? Giovani, vecchi, nessuno?
«Non so se è stata una scelta positiva o negativa in termini commerciali, chi lo sa. Avevo idee e testi grandi e interessanti e credo di essere riuscito a utilizzarli. Spero che questi brani trovino una casa, in un modo o nell’altro, spero che trovino una casa in molte case».

Chi è Robbie Williams oggi? Come vede se stesso?
«Mi vedo come padre, marito, intrattenitore, un ragazzo pieno di nevrosi e preoccupazioni, ma allo stesso tempo felice. Uno che lavora duramente, e si alza ogni mattina per sostenere la sua famiglia. E per questo, per la famiglia, il mio lavoro ha più senso di quanto non ne abbia mai avuto».

All’epoca del primo album solista nel 1997 pensava che sarebbe diventato il Robbie Williams di oggi?
«No, nel 1997 cercavo di essere qualcuno e di avere successo nella vita. E la stampa mi diceva chi ero».

Cosa ha scoperto con la musica, c’è qualcosa che lo ha reso “un uomo migliore”, come dice in una canzone?
«Non so, è una domanda difficile, cosa ho scoperto con la musica? Di me? Non lo so, ho un lavoro, voglio cantare, intrattenere la gente, voglio essere il tramite per far stare bene la gente, sembra che ci sia riuscito fino ad ora, sono fortunato, ho ancora la mia salute, e sono benedetto da una moglie e dai figli che ho. Sembra che me la sia cavata».

Come ha funzionato la collaborazione con Guy Chambers?
«Come in tutti gli altri album che abbiamo realizzato insieme. Ci mettiamo in una stanza, lui suona la chitarra e io ci canto sopra».

Come due giovanotti che amano scrivere musica insieme?
«Sì, anche se è difficile definire Guy un giovanotto. L’ho sempre visto come un fratello maggiore, mezzo matto: ci troviamo nello stesso spazio, siamo entrambi padri, abbiamo famiglie e abbiamo tutti e due un grande ego e questi ego sono un po’ malandati e contusi e vogliamo curarli scrivendo canzoni di successo. E farlo al meglio delle nostre possibilità».

Come sta preparando il live?
«Voglio dare alla gente qualcosa che valga i soldi che spendono, le performance migliori, ho il dovere di non deludere la gente, di farla divertire, e prendo questa responsabilità molto seriamente, anche se questa responsabilità mi porta a stare a letto per le prossime 48 ore prima di salire in scena di nuovo. E io sono un intrattenitore. E voglio piacere. Può non sembrare la cosa più bella da dire, ma è così».

È difficile intrattenere la gente in tempi difficili come questi?
«Beh, non che ci siano mai stati tempi facili sul pianeta, non penso ci sia mai stato un momento in cui sia stato un pianeta pacifico. Ma io sono in stadi pieni di persone che mi guardano, e non credo che possa esserci nulla di più difficile. Questo è l’“heavy entertainment show”».