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Nobel per la letteratura a Bob Dylan: ha saputo comporre come nessun altro

Nobel per la letteratura a Bob Dylan: ha saputo comporre come nessun altro
di Carlo Martinelli

14 ottobre 2016



Che giornata quella di ieri. Alle otto di mattina, a Milano - dopo aver riempito con le sue canzoni grammelot le corsie dell’ospedale, assicurano - se ne va Dario Fo, il giullare premio Nobel per la letteratura nel 1997. Alle tredici, a Stoccolma, l’annuncio che il Nobel della letteratura 2016 va a Bob Dylan, il menestrello. Comunque la si pensi - e di certo non la si pensa tutti uguale, anzi - per il mondo della cultura e per tutto quell’universo socialpop che all’istrionico milanese e al bardo di Duluth ha sempre dedicato affetto e attenzione, un corto circuito di emozioni e sentimenti.
Come se un folletto dispettoso avesse deciso di giocare tutte le sue carte con una mano spiazzante, di quelle che lasciano a bocca aperta. Se ne va il commediografo poeta pittore militante attore guitto che non pochi irritò quando l’imprevedibile Accademia svedese decise di assegnarli il Nobel ed ecco che, a rincarare la dose, nel mentre tutti aspettano l’incoronazione di Joyce Carol Oates o Richard Ford o Thomas Pynchon o Philiph Roth o Adonis o Murakami o Ngugi wa Thiong, spunta (meglio, rispunta) Robert Allen Zimmerman. Sceneggiatura perfetta, ritmo che conquista, sarebbe piaciuto a Fo. Canzone cartavetrata, messaggio non ecumenico, piacerà certamente a Dylan.
Certo, a molti - la rete è ancora una volta il collettore di umori ed opinioni, non disgiunte da invettive e contumelie senza senso - non piace che il più importante riconoscimento mondiale per la letteratura sia andato a chi “ha creato una nuova espressione poetica nell’ambito della tradizione della grande canzone americana”. Passi il teatro di Fo, par di sentire, ma le songs di Dylan no, per favore. Non sarebbero letteratura, l’obiezione. Allora, compitino facile facile. Vocabolario. Definizione. Letteratura. Ovvero “l’insieme delle opere variamente fondate sui valori della parola e affidate alla scrittura, pertinenti a una cultura o civiltà, a un’epoca o a un genere". Allora si va allo scaffale della biblioteca, si afferra il monumentale “Dylan Lyrics 1962 - 2001” che Feltrinelli mandò in libreria dieci anni fa - oltre 1.200 pagine, lecito attendersi a breve l’edizione aggiornata -, lo si apre a caso e poiché le canzoni sono suono, arrangiamento, ritmo, note, ma in taluni casi sono anche e soprattutto parola, ecco che la risposta alla definizione di cui sopra ce la si dà da soli, facilmente.
Bob Dylan è letteratura. Oltre mezzo secolo di componimenti, un viaggio rabdomantico tra ballads e blues, country e gospel, rock e folk: c’è miglior testimone? C’è bisogno di altra certificazione? Curioso. C’era appunto Joyce Carol Oates tra i candidati al Nobel finito invece al signore che come nessun altro ha saputo cantare il soffio nel vento, i tempi che stanno per cambiare, i tanti signor Rossi (alias mister Tamburino), la dura pioggia che cadrà, il cammino lungo le torri di guardia, la fatica di vivere, i tormenti della fede, i sogni di ribellione. Oates, che di Dylan ha detto: «In una cultura pop soggetta a rapidi e vertiginosi cambiamenti, Bob mantiene la sua statura e qualcosa del suo mistero originario. È l’esemplare figura dionisiaca». Ha spaziato ed ha attinto, Bob Dylan. Fedele anche, come accade ai grandi artisti, scrittori compresi, ad un cliché di distacco e quasi noncuranza del pur adorante pubblico.
Carattere non facile, certo. Ma contano le sue canzoni, in forma di poesia. Conta quel suo guardare tanto alla Bibbia quanto a Shakespeare, a Brecht quanto a Ginsberg. E quando, nell’Enrico V, il bardo per eccellenza, ricorda ai gentiluomini
che “la vita è breve” e che “se viviamo, viviamo per camminare sulla testa dei re”, non pare forse che lo dica proprio a loro due, a Fo e a Dylan, al giullare e al menestrello? E allora, che aspettate a batter loro le mani, a metter le bandiere sul balcone?