MUSICA




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'Imagine', il disco (con la canzone) simbolo del Novecento compie 45 anni


di MICHELE CHISENA

“Non sono interessato alla Storia. Sono interessato al presente. E al futuro”. John Lennon nel giugno del 1969 aveva lanciato il suo manifesto programmatico. Poco prima che il sogno dei Beatles si frantumasse tra contrasti interni, dispute legali e un’eredità pesantissima. Era un salto ideologico quello che Lennon immaginava e che ben rappresentò nella sua carriera solistica, iniziata già nel 1968 con Unfinished Music No.1: Two Virgins. Se in John Lennon/Plastic Ono Band (1970), il capolavoro, aveva buttato fuori, come gli suggeriva la terapia dell’urlo primitivo di Arthur Janov, tutti i suoi traumi infantili, nel successivo Imagine (1971), gli aspetti autobiografici lasciano il posto alla necessità di scrivere un disco più classico e magari anche più appetibile. 45 anni oggi, Imagine fu pubblicato l’8 ottobre nel Regno Unito e in Europa e, un mese prima, negli Stati Uniti. La storia del singolo ancora più complicata: registrato nel maggio del 1971 agli Ascot Sound Studio di Lennon a Tittenhurst Park, uscì negli Stati Uniti l'11 ottobre, mentre in Gran Bretagna fu pubblicato solo nel 1975.

L’hic et nunc è subito servito, ad iniziare dai tempi di realizzazione del disco: “Per farlo ho impiegato otto giorni. Mentre l’ultimo l’avevo prodotto in dieci. Significa che sto diventando più veloce”. Per passare poi alla distruzione del mito dei Beatles. Demolizione iniziata con God, tratta da John Lennon/Plastic Ono Band, e proseguita in tanti modi con Imagine. E lo dissolve, non certo con la scelta di chiamare George Harrison, la vittima sacrificale del quartetto di Liverpool che non aveva risparmiato frecciate a Yoko e John nel triplo All Things Must Pass, presente con la sua chitarra in cinque brani su dieci. Né con l’esclusione di Ringo Starr che l’aveva pure aiutato l’anno precedente con John Lennon…, ma che poi aveva sostituito con tre differenti batteristi per le session di Imagine (Jim Gordon, Jim Keltner e Alan White). Lo fa direttamente, abbattendo l’altra metà del paradiso Beatles: Paul McCartney.



Aveva esagerato troppo Paul contro John con la fin troppo allusiva Too Many People, tratta da Ram (pubblicato a maggio del 1971)? Con la foto degli scarafaggi che si accoppiano sul retro della copertina? Con le dichiarazioni sulla presunta portata politica di Imagine? La risposta di Lennon fu dapprima dirompente: “Pensi che Imagine non sia politica? Diciamo che è una Working Class Hero con lo zucchero fatta per i conservatori come te”. Poi, diventa sarcastica con How do you sleep?: un gancio sinistro/destro diretto contro le velleità e presunzioni di McCartney. Qui, la rabbia e il risentimento sono conditi al vetriolo: “Avevano ragione quei matti che dicevano che eri morto… Corri appena tua madre (Linda, ndr) ti dice qualcosa/L’unica cosa che hai fatto è stata Yesterday/ma da quando te ne sei andato è solo Another Day (gioco di parole in rime con due canzoni di McCartney: la prima, un classico, realizzata con i Beatles e l’altra, una “canzoncina”, tratta dal lavoro solistico, ndr)”.

Ma l’essenza del disco, co-prodotto con Yoko Ono e Phil Spector (numero uno in Uk e USA così come accadrà con Double Fantasy nel 1980), è tutta nella title track: “Immagina tutta la gente che vive per il presente”. Il brano apre e, idealmente, chiude l’album con la sua inarrivabile compiutezza (senza nulla togliere alla lezione di stile in brani come: Jealous Guy, How? e Gimme Some Truth). Se Imagine può essere considerata, con ogni probabilità, la canzone più importante del Novecento lo si deve alla sensazione prodotta dal contrasto tra la realtà vissuta (guerre, violenze, intolleranza e soprusi) e il disegno utopico di Lennon (“Immagina che ci sia un mondo senza proprietà/ Senza necessità di avidità o fame/Immagina che non ci siano nazioni/non è difficile da fare/nulla per cui uccidere o morire/e che non ci siano religioni”). È una “bugia” utile, di una dolcezza, infantile e comodamente ingenua. Lennon chiama a raccolta tutti i “sognatori” (“Qualcuno potrebbe dire che sono un sognatore/ma non sono il solo”). Per dirla con William Butler Yeats: “nei sogni iniziano le responsabilità”. E l’immaginario di Lennon toccò con un paio di accordi, e una semplicità disarmante, il confine, così vicino così lontano, tra quello che è e quello che potrebbe, condizionato irrimediabilmente dalla più stupida delle paure: essere felici.