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2016, l’estate in cui sparì la canzone pop italiana

2016, l’estate in cui sparì la canzone pop italiana
Il tormentone stagionale è ”Andiamo a comandare”, una parodia. E il resto? Così così: la musica è in crisi, ecco come può uscirne


21/08/2016
PIERO NEGRI
Le canzoni pop sono come le stelle cadenti: ci sono tutto l’anno, ma si notano di più in estate, a metà agosto. Che estate è, allora, quella 2016 del pop italiano? La peggiore di sempre, pensano molti addetti ai lavori che pure non hanno molta voglia di dirlo in pubblico. Difficile non essere d’accordo: il tormentone stagionale è senza dubbio Andiamo a comandare di Fabio Rovazzi, più che una canzone, una parodia.

Rovazzi, finora (poco) noto come videomaker, ha confezionato con uno dei due Two Fingerz la versione nordista del «Supercafone» di qualche estate fa. Una gag, insomma, che come l’altro successo stagionale Vorrei ma non posto porta la firma di J-Ax e Fedez, in questo caso in veste di discografici.
Le radio stanno suonando molto Jovanotti (Ragazza magica) e poi Zucchero (13 buone ragioni) e Luca Carboni (Happy), che con queste canzoni non aggiungono granché alla loro già gloriosa carriera, come pure Max Gazzè (Ti sembra normale) e Tiromancino (Tra di noi). I più giovani sono rappresentati da Calcutta (Oroscopo, carina), dal duo di «pop daltonico» Lemandorle (Le ragazze) e Baby K (Venerdì), dal rap di Emis Killa (Cult). Ed è chiaro che qui si parla di nicchie, magari anche ampie, con poche speranze di conquistare un pubblico nuovo o addirittura entrare nel «mainstream», come da ironico titolo dell’album dello stesso Calcutta.

Perché poi, a bene vedere, il problema è proprio questo: senza il desiderio, il progetto, la possibilità di diventare mainstream, il pop non esiste. E per chi non ha una popolarità vera e consolidata guadagnarsi un posto nell’immaginario collettivo sembra un’impresa impossibile: «Oggi la musica pop dorme - conferma Gianfranco Salvatore, docente di Popular Music all’Università di Lecce -, le canzoni non riescono a spiegare il mondo né dal punto di vista dei testi né dal punto di vista formale».

A ottobre Salvatore pubblica il libro I primi quattro secondi «Revolver», con un riferimento all’album che i Beatles pubblicarono nell’agosto di 50 anni fa. Ma non è nostalgico: «Anzi, ciò che rende interessante quella storia è che anche nel 1966 la canzone era considerata in crisi. I Beatles la salvarono, reinventandola. La mia teoria è che tutta la musica che sarebbe seguita si potesse intuire nei quattro secondi che precedono Taxman, la prima canzone dell’album, che sono una profezia: il pop - azzardano i Beatles - d’ora in poi si farà sperimentando, cercando un rapporto con le avanguardie artistiche e con la controcultura. Non sono pessimista, credo che la parola crisi anche oggi possa diventare sinonimo di cambiamento, vedo anche sintomi di ripresa: la musica pop non è finita, il problema è che le sue strutture si comportano come se lo fosse».

In pratica, sostiene il Professore, la creatività esiste, come sempre, ma non trova il modo di farsi ascoltare: «Colgo segnali di resistenza, per esempio il percorso di Niccolò Fabi, Max Gazzè e Daniele Silvestri che ha portato all’album che hanno realizzato insieme, bell’esempio di ricerca musicale coniugata a una semplicità molto pop. Il problema è che il sistema oggi porta a ridurre la musica, come le altre arti, a una iniziativa amatoriale, senza la prospettiva di farne una professione. È la tragedia che stiamo vivendo e che forse potremo cominciare a risolvere quando usciremo dall’allucinazione collettiva dei talent show, all’idea che si possa concentrare una carriera in pochi mesi di televisione. Nei talent vedo entusiasmi e capacità artistiche commoventi, ma anche un immaginario che fa paura, in un momento in cui è quasi impossibile immaginare una carriera nella musica».

Come al solito, il pop, perfino quello delle canzoni d’estate, finisce per dire qualcosa di significativo sul nostro mondo: «I miei colleghi accademici mi criticheranno per questo - conclude Salvatore - ma nel libro scrivo che “forse una società non può essere migliore delle canzoni che produce”. È un’affermazione poco scientifica, ma ci credo: la crisi del pop è un riflesso di una crisi più generale. E la ricerca della bellezza oggi è offuscata dall’angoscia che proviamo».