MUSICA




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Max Gazzè: “Pop è bello. Ecco il segreto della canzone dell’estate”


Basta accendere la radio per accorgersi, tra le canzoni dell’estate 2016, di Ti sembra normale di Max Gazzè. È lui, 49 anni, romano, la persona del momento con cui parlare un po’ di pop. Del suo e di quello degli altri.

Lei si sente pop?
«Diciamo che sono cresciuto con la pop art. Il pop da noi si sminuisce sempre. Se uno invece pensa all’arte, da Mario Schifano in poi, pop è una meraviglia. Dipingendo anch’io per diletto, mi definisco pop pensando a Andy Warhol».

E nella musica?
«Ho cominciato con la classica, ho studiato da direttore d’orchestra, poi ho suonato come bassista jazz, infine mi sono aperto al pop: Pink Floyd, Genesis, Specials, Bad Manners, Talking Heads, Police, ma anche Duran Duran e Tears For Fears. Prima che la batteria elettronica facesse scadere le produzioni musicali, mi piacevano le melodie e gli strumenti innovativi. Poi quel mondo lì è finito e negli Anni Novanta è arrivato il grunge dei Nirvana».

Gli italiani non le piacevano?
«Ho abitato in Inghilterra e in Belgio, di giorno mischiavo jazz e punk, la sera ascoltavo Guccini, De André, De Gregori e leggevo Montale e Zanzotto. Ancora oggi con mio fratello Francesco lavoro lo sforzo più grande è sulle parole, che devono essere già musica. Il loro suono è la base delle mie canzoni».

A parte il suo successo, com’è la situazione del pop in Italia?
«Mi pare in salute. Per fare musica di qualità anni fa bisognava investire tanto, oggi si può produrre un disco di livello professionale in casa. C’è più produzione e meno spazi. Occorrerebbe facilitare gli artisti emergenti che fanno concerti, per esempio agevolando i costi Siae. Per capirci: il mio successo di oggi negli Anni Ottanta sarebbe stato molto più remunerativo. Oggi tutto viene dai concerti. Se uno riesce a sopravvivere con figli, case e separazioni da pagare è quasi un miracolo».

Quali sono le categorie musicali ancora valide oggi?
«Prima di tutto per me la musica è un veicolo di emozioni, fa vibrare l’anima senza passare dal cervello, poi - certo - si possono esprimere preferenze. Una volta ci si divideva per gruppi: i punk, gli hippie, anche se in Italia c’era sempre confusione. Quando tornavo per le vacanze vedevo ragazzi con la maglietta degli Who e la giacchetta di Elvis e per me era inconcepibile. Le categorie valide ora mi sembrano pop, rock, rap e indie o underground».

Del rap italiano cosa pensa?
«È una comunicazione arrivata dai sobborghi americani all’Italia. Anche i miei figli ascoltano J-Ax, Fedez e Fibra. Da musicista apprezzo la musica elettronica, la uso. E pur non facendo il rap, capisco che anche lì le parole sono importanti».

Veniamo a Ti sembra normale?
«Mi piace pensare alle canzoni come sceneggiature. Ti sembra normale è l’adolescenziale difficoltà dell’uomo nei rapporti con la donna, Teresa è la preferenza di non convivere per far durare l’amore, La vita com’è rappresenta la maturità di non mettersi di traverso. È una trilogia, che da ottobre porto in tour in Nord America, Giappone e Cina. E nel 2017 vado a teatro con testi dai Manoscritti di Qumran messi in musica: il prossimo disco cui penso ha sonorità molto sperimentali».

Al Giudizio universale quale delle sue canzoni porterebbe?
«Il solito sesso. È il racconto di una telefonata, la rivincita dell’uomo romantico e comprende sei tonalità in meno di quattro minuti: la prova che il pop può essere molto ricercato».